Appunti n.139
(indice Appunti)
L’assistenza personale autogestita
e il progetto SAVI. Una realtà innovativa per le persone con disabilità e una
buona prassi per le amministrazioni pubbliche
Gianni Pellis - Componente della Segreteria Operativa di ENIL Italia
Onlus, Presidente dell’Associazione Consequor per la Vita Indipendente, Onlus.
gpellis@tiscalinet.it
Il mio progetto personalizzato di Vita Indipendente ai sensi della legge
162 e il progetto SAVI al CISAP di Collegno e Grugliasco costituiscono due aspetti
ugualmente importanti e complementari della realtà della vita indipendente per
le persone con gravi disabilità e dell’assistenza personale autogestita.
La filosofia, il movimento per la Vita Indipendente
Nell'ormai lontano 1989, in occasione della conferenza internazionale "Personal
Assistant: The key for the Independent Living", promossa a Roma da Teresa Selli
Serra, compianta Presidente dell'Aias, dalla viva e serena voce di numerose
persone con disabilità motorie gravi e attivisti del Movimento Internazionale
per la Vita Indipendente, apprendemmo che cosa effettivamente significa libertà
di scelta per gestire la propria vita, reale autodeterminazione e concreta integrazione
sociale nonostante la disabilità. Che cosa sia l'assistenza personale autogestita,
quali siano le notevoli opportunità e le concrete potenzialità che offre alle
persone con disabilità, cosa siano i pagamenti diretti e le efficaci opportunità
offerte dal controllo e dalla gestione degli assistenti personali, liberamente
scelti e formati. Come, inoltre, persone in carrozzina con forti limitazioni
motorie, tetraplegia o mancanza totale degli arti superiori o tetraparesi spastica,
(come esempi tra i tanti possibili) potessero vivere una vita attiva e propositiva,
in famiglia o da soli, a casa e in ufficio; potessero muoversi all'interno del
loro paese e anche all'estero, nonché gestire e controllare la propria giornata
nonostante le forti limitazioni motorie per attivare iniziative, poter fare
attività, prendere decisioni riguardanti la propria vita. E come quelle stesse
persone potessero anche avere anche una "normale" situazione familiare e lavorativa:
nonostante le limitazioni motorie. Era qualcosa di rivoluzionario.
Pensare a un sistema in alternativa all'assistenza domiciliare classica, pochissime
ore alla settimana (anche oggi), mai di sera dopo le 16 e mai di mattina presto,
impensabile nei giorni di festa o nei weekend, con gli operatori che cambiano
tutti i giorni, ecc., rappresentava sia forte rispetto della persona con disabilità
sia, allo stesso tempo, una soluzione valida, concreta e efficace per garantire
il diritto all'autodeterminazione e alla libertà di scelta, senza decisioni
esterne o altrui.
L'anno successivo eravamo presenti ad Assen alla riunione di ENIL Europa (European
Network on Independent Living) dove vennero definiti i principi guida e le linee
di sviluppo per i movimenti per la Vita Indipendente nei singoli paesi dell'Europa.
A maggio del 1991, a Roma, circa 80 persone con disabilità costituivamo ENIL
Italia. L'inizio di una nuova sfida. Negli anni successivi con l'attività tra
le persone, con l'impegno dei soci, gli incontri e le conferenze, l'attività
informativa generalizzata con le istituzioni e gli enti locali abbiamo informato
formato e avviato le persone sulla strada dell'assistenza autogestita.
La legislazione in Italia e i primi progetti operativi
E, finalmente, nel maggio del 1998 la svolta: il Parlamento promulgava la
legge 162 "Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, concernenti misure
di sostegno in favore di persone con handicap grave".
E' compito delle Regioni, all'articolo l ter, "disciplinare, allo
scopo di garantire il diritto ad una vita indipendente alle persone con disabilità
permanente e grave limitazione dell'autonomia personale nello svolgimento di
una o più funzioni essenziali della vita, non superabili mediante ausili tecnici,
le modalità di realizzazione di programmi di aiuto alla persona, gestiti
in forma indiretta, anche mediante piani personalizzati per i soggetti che ne
facciano richiesta, con verifica delle prestazioni erogate e della loro efficaci".
Per la prima volta in una legge dello Stato Italiano si parlava di diritto
alla Vita Indipendente per le persone con gravi disabilità.
Nel dicembre 2001 non è più stata rifinanziata la legge 162; però è stato finanziato
l'articolo 39 della legge 104, da cui riporto dal punto 2:
…2. Le regioni possono provvedere, sentite le rappresentanze degli enti locali
e le principali organizzazioni del privato sociale presenti sul territorio,
nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio: .... l-ter) a disciplinare,
allo scopo di garantire il diritto ad una vita indipendente ……
Ma come si può "disciplinare allo scopo di garantire il diritto a una Vita Indipendente"
con tante parole così "possibiliste" e non vincolanti?.
Questo articolo, purtroppo, può essere interpretato in tanti modi, contiene
troppe finalità e, probabilmente, ancora una volta il punto "l ter" rischia
di essere trascurato e non applicato.
Con la promulgazione della Legge 162 alcune proposte sono diventate concrete
e, accanto a quello di Roby Margutti a Terzo d'Aquileia (robymargutti@tiscalinet.it)
che potrebbe essere considerato il primo, qualche progetto sperimentale è stato
reso operativo. Ricordo Ida Sala a Como (idasala@tin.it), i primi tentativi
a Venezia con Roberto Bressanello e, anche se senza successo, c'era stato il
primo tentativo di Miriam Massari a Roma (mi.massari.libera@libero.it). Accanto
a questi iniziali, si sono avviati quelli, numerosi, a Venezia (elisabetta.gasparini@tin.it),
a Verona (anatra63@hotmail.com, elenaskall@libero.it), a Brescia e a Grugliasco.
Il Progetto SAVI al CISAP e il mio progetto personalizzato di Vita Indipendente
Sulla base di questa legge, che DOVREBBE GARANTIRE il diritto ad una vita
indipendente alle persone con disabilità, mi sono rivolto al mio Comune
per presentare la mia domanda/richiesta, ai sensi dell'articolo "l ter" della
legge 162.
La risposta dei responsabili del Consorzio CISAP, nella persone sia del Direttore
Generale dr. Mauro Perino (perino@cisap.to.it) sia del Direttore Servizi alla
Persona dr. Luciano Rosso (rosso@cisarivoli.it), è stata pronta e, rispettando
le persone con disabilità, hanno interpretato favorevolmente l'articolo "l ter"
per attuare con motivata convinzione le opportunità offerte dalla legge 162.
Anche se c'è da notare, purtroppo, che una così pronta ricezione costituisce
ancora, sul territorio nazionale, un fatto più unico che raro. Nei mesi successivi,
con la collaborazione della Segreteria Operativa di ENIL Italia Onlus, è stato
discusso e impostato il regolamento e la necessaria documentazione per preparare
il progetto SAVI (Servizio di Aiuto alla Vita Indipendente) che nell'agosto
del 1999, alla pubblicazione della delibera della Regione Piemonte, è stato
presentato al relativo "Bando di concorso". Nell'ambito del progetto SAVI al
CISAP sono state individuate tre persone o su richiesta personale (come nel
mio caso) o proposte da associazioni che operano nel territorio o direttamente
dal Consorzio.
Sono persona con disabilità permanente, tetraplegico dal 1986 con conseguenti
gravi limitazioni alla possibilità di essere autosufficiente nello svolgimento
delle più essenziali funzioni della vita. Lavoro a Torino e vivo, da solo, a
Grugliasco.
Molte azioni della mia giornata, come l'essere alzato e coricato, le operazioni
di igiene personale, l'essere imboccato per i pasti, l'essere accompagnato per
gli spostamenti sia in casa che all'esterno, solo per indicare i più importanti
bisogni primari, non trovano nessun aiuto o beneficio nemmeno dalla tecnologia
più sofisticata. Esse richiedono, necessariamente, un intervento che può essere
garantito solo dalla presenza di "assistenti personali" da me gestiti e da me
retribuiti, che debbono essere coinvolgibili con sicurezza, con continuità,
in modo flessibile, lungo l'arco dell'intera giornata, di tutta la settimana
e di tutto l'anno.
Alcune altre azioni, invece, vengono da me effettuate in modo autosufficiente
mediante ausili innovativi che ho individuato personalmente e acquistato con
mezzi finanziari propri.
Tutto è iniziato con la preparazione diretta del proprio progetto, il mio, di
assistenza personale autogestita senza, ovviamente, l'intervento di nessuno,
tantomeno gli operatori.
Successivamente, una volta accettata la domanda, si e passati alla fase di negoziazione
dove il progetto personalizzato è stato discusso, valutate le ore complessivamente
richieste per giungere al numero di ore che sono state riconosciute al progetto.
Il mio progetto prevede un monte ore annuale, discusso, negoziato e concordato
con il Consorzio, mediamente di 11 ore giornaliere per tutti i giorni dell'anno.
La quota oraria stabilita è di 16000 lire, cifra che dovrebbe già includere
tutto quello che è richiesto dal contratto di lavoro e dalle leggi e norme dello
Stato in materia di lavoro. Però, alla luce dell'esperienza acquisita, la cifra
non dovrebbe essere inferiore alle 18000 lire. Comunque distanti dalle quote
orarie indicate dai servizi istituzionali sul territorio, "circa 30-35000 lire",
con conseguente risparmio di risorse e aumento dell'efficacia degli interventi.
Con questa cifra (circa 65 milioni per un anno) ho assunto due assistenti personali
con regolare contratto di lavoro (quello utilizzato è il "Contratto nazionale
di collaborazione domestica", rinnovato l'8 marzo 2001 e siglato nello scorso
mese di maggio). I due assistenti, rispettivamente, sono coinvolti al mattino
e alla sera per sei giorni alla settimana dal lunedì al sabato e, mediamente,
dalle quattro alle cinque o anche sei ore al giorno, secondo i giorni e secondo
i casi; ma sempre in modo concordato e previsto; anche se a volte ci sono o
ci possono essere momenti di emergenza che vengono risolti secondo situazione
e schemi verificati e efficaci.
Con questa cifra, che non deve coprire solo 12 mesi (ma anche oltre agli stipendi,
la tredicesima, il TFR - praticamente 14 mensilità - i contributi previdenziali
e l'assicurazione obbligatoria per gli assistenti contro gli infortuni e gli
incidenti domestici), non riesco però a coprire il monte ore "virtuale" di 4062,5
ore, ma "solo" mediamente, di 9 ore giornaliere. Che, comunque, è già una bella
cifra. Altre persone, altri assistenti sono coinvolti nei giorni di festa, per
la sostituzione degli assistenti in ferie e, ogni tanto purtroppo, per le emergenze.
La presenza e l'aiuto degli assistenti personali che ho individuato, scelto,
assunto e che "formo" personalmente, mi permette di poter effettuare azioni
o svolgere attività che altrimenti mi sarebbero impossibili, e precisamente:
- assistenza personale durante la giornata per alzarmi e coricarmi, l'igiene
personale, per vestirmi, per i pasti ecc., insomma praticamente per i bisogni
fondamentali o primari;
- assistenza per la mobilità personale, soprattutto per la guida del mio pulmino
attrezzato;
- collaborazione per esigenze domestiche, senza dimenticare, ovviamente, tutte
le attività di gestione della casa e inerenti alla preparazione dei pasti.
- soddisfazione di altri bisogni/diritti non primari, eppure fondamentali per
la qualità della vita, come visite a amici e parenti, riunioni, incontri e conferenze,
gestione della corrispondenza e della contabilità personale; poi, visite mediche,
stati di temporanea malattia o di emergenza, gite di uno o più giorni, partecipazione
a corsi o seminari di informazione, acquisti personali, ecc.
Questo, in definitiva, significa avere il controllo della propria giornata,
forse anche di una parte importante della propria vita, il diretto controllo
delle proprie azioni e delle proprie presenze senza nessuna decisione esterna
o altrui. O che dipenda da considerazioni che altri fanno o che possono fare;
che non riguardano assolutamente la "vostra" vita, ma sicuramente la "loro"
giornata e la loro programmazione o quelle dei loro servizi, le loro organizzazioni
e i relativi bilanci.
Provate a pensare a quello che è l'assistenza domiciliare, data col contagocce,
quando va bene alcune ore al giorno, mai di festa, mai al mattino presto e,
ovviamente, mai alla sera e figuriamoci se tardi, con i tempi morti dei trasferimenti,
comunque pagati, o delle riunioni assembleari per discutere sui nostri bisogni.
Analogo discorso o ragionamento può e deve essere fatto (esperienza personale
insegna, e che, peraltro, è comune anche a molti amici) per tutte quelle organizzazioni
costituite, non da persone con disabilità, per dare assistenza o servizi (anche
con finanziamenti pubblici, cioè anche nostri) alle persone con disabilità.
Di stile e impostazioni tipicamente paternalistiche, "io decido sulla base di
miei parametri, di mie considerazioni più o meno giustificate (soprattutto dal
punto di vista nostro, di persone con disabilità) quello che sta bene o deve
star bene a te".
Quando si autogestiscono i propri assistenti personali ci si deve occupare dell'aspetto
contabile, fiscale, un po' anche contrattuale, previdenziale, assicurativo e
come un, piccolo, datore di lavoro ci si deve impegnare a effettuare chiamate,
colloqui, interviste e selezioni.
Per quanto concerne l'aspetto finanziario è necessario sottolineare come il
progetto presentato risulta essere sperimentale e che le valutazioni delle ore
richieste e dei costi sono da ritenersi indicative e sicuramente soggette a
variazioni e modificazioni. Soprattutto, se consideriamo che questa legge e
i relativi finanziamenti dipendono, ogni anno, dall'approvazione della legge
Finanziaria.
Centri e agenzie di supporto alla vita indipendente
Ovviamente diventare protagonisti delle propria vita, decidere in prima
persona tutti i giorni può significare tante e importantissime cose. È una sensazione
positiva e forte, avere e prendere coscienza e consapevolezza di potere e di
dovere continuamente decidere e verificare che funziona è soddisfacente. Potrebbe
sembrare non facile e, soprattutto, all'inizio forse non lo è e può succedere
che, di fronte a queste prospettive, le persone rinuncino o siano molto restie
ad cominciare. Ma nemmeno poi così difficile, né tantomeno impossibile.
Comunque, anche in questo caso il Movimento Internazionale per la Vita Indipendente
ha una risposta e una proposta: la costituzione, da parte delle stesse persone
con disabilità e sotto il loro diretto controllo e partecipazione attiva, di
Centri o Agenzie per la Vita Indipendente.
In questi centri e agenzie, operano le persone con disabilità che hanno esperienza,
ma non solo, di assistenza personale autogestita e che, con servizi di consulenza
alla pari, seguono e aiutano le persone con disabilità che hanno deciso di seguire
percorsi personalizzati di Vita Indipendente e di richiedere l'assistenza autogestita.
In questi centri si forniscono informazioni e aiuti concreti di sostegno, di
accompagnamento sia nel percorso che porta la persona con disabilità a acquisire
consapevolezza, sia di strumenti per gestire la propria assistenza personale.
Nel corso degli ultimi anni sono state costituite diverse realtà locali, soprattutto
regionali, che, nello spirito e con i principi irrinunciabili del Movimento
per la Vita Indipendente e anche collegate a ENIL Italia, sono o dovrebbero
essere dei veri e propri centri per la Vita Indipendente. Punti operativi di
riferimento per le persone con disabilità per coinvolgerle, per informarle e
per aiutarle nei percorsi personali di assistenza personale. Ricordo l'Associazione
Vita Indipendente in Toscana, l'Associazione IDEA Onlus in Friuli Venezia Giulia,
l'Associazione Vita Indipendente Roberto Bressanello a Venezia, l'Associazione
Libera! e il Comitato Veronese Vita Indipendente a Verona, il Coordinamento
per la Vita Indipendente in Veneto, l'Associazione Consequor per la Vita Indipendente
in Piemonte, il Comitato Lombardo per la Vita Indipendente e l'Associazione
La formica - Onlus in provincia di Siracusa. Tutti composti e gestiti da persone
con disabilità che necessitano o hanno intrapreso esperienze o percorsi di assistenza
personale autogestita.
Considerazioni generali
Parlando di finanziamenti, di cifre, di occupazione e di formazione, parole
che hanno sempre un effetto importante, mi limito a sottolineare due risultati
inequivocabili:
- il primo, che l'assistenza personale autogestita ha permesso il mantenimento
del mio posto di lavoro, nel senso che mi ha effettivamente dato le opportunità
fisiche di assistenza personale per andare in ufficio e, dopo le 8 o 10 ore
tradizionali, per ritornare a casa; inoltre il lavoro, tra tutti i benefici
per me, ha significato continuare a essere un contribuente attivo;
- il secondo risultato è che ha creato due nuovi posti di lavoro qualificato,
formazione inclusa, produttivi, efficienti e efficaci, e di conseguenza, altri
due contribuenti attivi.
Questo per sostenere un'altra importante valutazione, parlando di cifre, e cioè
che il finanziamento dello Stato (in questo caso attraverso la 162, ma da ora
attraverso la 104) "rientra" nelle casse della Stato al "40-50% circa" sotto
forma di ritorni fiscali e previdenziali.
Per concludere, ricordo che Vita Indipendente è considerata una buona prassi
dalla Comunità Europea: "Vita Indipendente" è un modello intelligente, sia dal
punto di vista occupazionale che dell'utilizzo dei fondi destinati all'assistenza,
con delle modalità precise e soluzioni già sperimentate o in via di sperimentazione
in molti Paesi europei. È un nuovo modo di offrire pari opportunità e di evitare
che la vita delle persone con disabilità sia condizionata e limitata ben oltre
le proprie difficoltà fisiche.
(indice)
Quantità e qualità dei nuovi
bisogni della popolazione anziana
Antonio Guaita - Direttore Medico Istituto Geriatrico “C. Golgi” di Abbiategrasso
(MI)
Crisi dei riferimenti operativi tradizionali e proposta di un modello consultoriale
delle UVG
Di fronte all'aumento numerico, assoluto e relativo, della popolazione anziana
e alla crescita di bisogni che comporta, uno degli errori più comuni, è quello
di prevedere la semplice moltiplicazione di quello che esiste (più ospedali,
più case di riposo), generando così una visione apocalittica del futuro peso
economico dell'assistenza agli anziani disabili. Altre volte invece il rimedio
a ciò diviene la negazione della reale dimensione del problema, ipotizzando
una diminuzione di domanda assistenziale che non si è capito bene da che dovrebbe
dipendere; o ancora si fanno ipotesi di totale disinvestimento pubblico dal
settore affidandosi agli automatismi del mercato; oppure al contrario c'è chi
si aggrappa agli enunciati costituzionali per rivendicare la cura gratuita a
carico del SSN degli anziani malati cronici, sottovalutando di fatto il problema
economico conseguente. Non è necessario citare i protagonisti di queste posizioni,
visto che sono diffuse in più soggetti e più punti del quadro culturale e istituzionale
del nostro paese. La tesi di questo articolo è: che vi è e vi sarà un reale
aumento "quantitativo" dei bisogni della popolazione anziana, ma che la risposta
a tali bisogni deve tenere conto anche dei cambiamenti "qualitativi" presenti
in loro e nel contesto famigliare e sociale. Questi cambiamenti hanno messo
in crisi il concetto di malattia come indicatore unico del bisogno dei malati,
così come la visione statica del supporto sociale, rendendo necessari dei nuovi
paradigmi operativi. Il pensare che la soluzione stia solo nella "equità" distributiva
di quello che esiste, genera una gestione "autorizzativa" dell'accesso ai servizi,
producendo inefficienza e nuovi costi. In conseguenza di ciò le Unità Valutative
Geriatriche invece di rappresentare una novità favorevole per i nuovi bisogni
degli anziani stanno correndo il rischio di divenire strumenti burocratici,
lontani dalla loro origine e dai loro obiettivi. Per questo viene proposto un
nuovo paradigma di contenuto (la salute invece della malattia) e un nuova metodologia
operativa (consultoriale geriatrica) per le UVG.
Il bisogno nella popolazione anziana: aspetti quantitativi
Negli USA già nel 1993 si ipotizzava che entro il 2060 le persone anziane
disabili sarebbero passate da 0,8 a 2,6 milioni, portando i ricoverati nelle
Nursing Homes da 1,3 a 4,5 milioni , mentre gli autori si dimostravano scettici
sul fatto che l'aumento dei servizi domiciliari avrebbe diminuito il numero
dei ricoverati. E' quindi difficile contestare il fatto che dobbiamo, e dovremo,
fare fronte ad un aumento quantitativo dei bisogni degli anziani disabili, compresa
la richiesta di ricovero in RSA, notoriamente molto costosa.
- Vi un "invecchiamento dei vecchi", per il quale le classi di età più anziane
stanno aumentando ad un ritmo più alto della crescita della popolazione anziana
in generale; fra il 1997 e il 2021 si calcola che gli ultra65enni italiani passeranno
da 9.993.000 a 13.209.000 (+ 32%), mentre gli ultra 80enni da 2.299.000 a 4.090.000
(+ 78%), secondo stime ISTAT. Alcuni pensano che il miglioramento della salute
degli anziani, possa controbilanciare questo aumento numerico e di longevità.
Il generale miglioramento della salute, ha sicuramente spostato verso età più
avanzate l'età della "dipendenza terminale", ma questo fatto ne trascina altri,
non altrettanto felici: la conseguenza principale è che si è spostata l'intera
coorte della "età della vecchiaia" verso età maggiori. Anche considerando che
i numeri non cambiano molto, dobbiamo però pensare che assistere un anziano
dipendente di 90 anni invece che di 60 anni non è la stessa cosa, né dal punto
di vista biologico, nè da quello sociale. E, tutto sommato, non lo si fa per
meno tempo.
- Vi è infatti una correlazione positiva fra età, disabilità e instabilità clinica:
ad esempio la quota di persone "molto fragili" nelle attività della cura di
sé, in Lombardia passa dal 2,3% della classe 65- 74 al 25% degli ultra 85enni;
l'indice di fragilità "molto alta" nella dimensione sanitaria specifica ("salute")
passa, nella stessa popolazione da 5,1% a 26,1. La correlazione fra i due aspetti
(disabilità" e "salute") è altamente significativa, secondo i dati di questo
stesso studio.
- Vi è inoltre una correlazione fra età e disabilità psichica: la maggiore età
implica anche una maggior quota di associazione fra disabilità fisica e disabilità
psichica. Il disturbo cognitivo è età correlato sia nella letteratura internazionale,
sia nei dati della Lombardia (fragilità "alta" nella dimensione cognitiva: 0,8
a 65 anni e 11,7 a 85anni)(vedi nota 4).
Una cosa (compressione della morbilità) non compensa l'altra (aumento del numero
e della longevità degli anziani), così che numero e costi aumenteranno insieme
con la complessità dei bisogni cui occorre rispondere: il tempo medio che uno
trascorre da disabile grave, è anch'esso, moderatamente, aumentato.
Il bisogno nella popolazione anziana: aspetti qualitativi
Ma non meno importanti sono gli aspetti qualitativi che questo invecchiamento
della popolazione disabile anziana trascina con sé :
- Le malattie cronico degenerative, età-dipendenti sono la parte prevalente
dell'attività di cura dei medici e degli ospedali, ormai da tempo. Agli inizi
del '900 la prima causa di morte in Italia era la gastroenterite, cioè il tifo
e paratifo, oggi causa di morte vicina alla zero; mentre ora le prime tre cause
di morte sono, come è noto, malattie cardiovascolari, tumori e malattie cerebrovascolari.
Già negli anni '80 si calcolava che il 70% della attività medica negli USA era
rivolta alla patologia cronica e che quasi la metà degli interventi per "acuti"
riguardava riacutizzazioni di malattie croniche. Le caratteristiche di queste
malattie obbligano spesso ad allontanarsi dal tradizionale approccio clinico,
a favore di paradigmi interpretativi più complessi: non solo infatti non guariscono,
ma gli strumenti farmacologici sono ad efficacia limitata, e le persone si tendono
ad ammalare, in età avanzata, di più malattie contemporaneamente.
- La disabilità è un segno e un sintomo che accompagna una malattia che persiste,
non solo una sua "sequela", accompagnandosi quindi ad alte quote di instabilità
clinica. La visione "fisiatrica" dell'intervento riabilitativo sulla sola limitazione
funzionale, da applicarsi solo "dopo" la malattia, se applicata, negherebbe
la riabilitazione a moltissimi anziani "malati" (e non convalescenti) che invece
se ne gioverebbero.
- La disabilità, nelle età avanzate, in maggioranza non dipende da un'unica
condizione che l'ha provocata in modo "catastrofico", ma da un'insieme di piccoli
o grandi danni funzionali o strutturali, ciascuno dei quali non sarebbe in grado
di togliere l'autonomia, ma che, insieme, determinano l'incapacità e la dipendenza.
Quindi l'intervento "specialistico" di organo o d'apparato è il più delle volte
largamente insufficiente quando non deleterio.
- Vi è sempre più spesso l'associazione della disabilità fisica e psichica,
per la epidemia esplosiva delle demenze senili, per cui in Europa si parla di
raddoppio di prevalenza di tali malattie ogni 5 anni a partire dai 65 anni.
Ma nelle residenze (o le loro equivalenti Nursing Homes, nel mondo anglosassone)
la prevalenza arriva al 50%, e per alcuni, se consideriamo tutta la patologia
psichica e non solo le demenze, si arriva al 90% dei ricoverati.
Sempre più negli anziani salute e malattia non si escludono ma convivono, seppur
in quote diverse, e non è detto che trattando la malattia, automaticamente migliori
anche la salute, qui largamente identificata con l'autonomia, mentre spesso
occorre fare il contrario (recuperare autonomia per aiutare la guarigione della
malattia). Ad esempio per conservare la salute non è sufficiente prevenire le
malattie; occorre la riabilitazione delle funzioni e la riattivazione globale
per non avere anziani che siano magari usciti dall'evento acuto, ma non abbiano
comunque recuperato la salute.
La conclusione è: la cura della malattia non è più sufficiente per assicurare
la salute agli anziani.
A questo si aggiungono una serie di eventi sociali non favorevoli: meno figli,
meno pensionati giovani, la fine della supplenza "sociale" dell'ospedale per
l'avvento dei DRG (ad esempio In Italia lo studio GIFA ha messo in evidenza
come l'introduzione dei DRG ha consentito risparmi di degenze in ospedale che
si sono tradotte in un maggior onere per il sistema socio sanitario di long
term care, per la maggior quota di disabili alla dimissione (dal 24,6 % al 28,4
% fra il 1993 e il 1996); crisi dello stato sociale; in più le maggiori aspettative
di qualità ambientali e di cura che le persone anziane stesse, e le loro famiglie,
hanno verso i servizi. In conclusione nell'ultima metà del secolo la vita è
aumentata talmente che abbiamo guadagnato vita attiva e salute, ma non è proporzionalmente
diminuita, bensì spostata nel tempo e aggravata, la quota di vita non autonoma,
per cui il bisogno di servizi non risulta diminuito, ma semmai aggravato da
una complesso intreccio di fragilità fisiche, psichiche e sociali.
La crisi dei modelli di riferimento
Del non riconoscimento della complessità dei problemi prima delineati, fanno
parte anche le riproposizioni dei modelli operativi di riferimento, classicamente
inquadrati nei termini di "sanitario" e "sociale": riferito più spesso il primo
alla attività clinica e medica, il secondo ai servizi di supporto e sostegno.
Ambedue questi modelli si rivelano insufficienti.
A) Crisi dell'ospedale come modello per la rete dei servizi per gli anziani:
La risposta in termini di sola "cura della malattia" è stata individuata già
a livello epistemologico come il peccato originale della medicina del nostro
tempo da Gadamer, nel bellissimo saggio, "Dove si nasconde la salute?", a cui
sostanzialmente affianca (o contrappone?) una "medicina del malato" di tipo
olistico. I disastri dei modelli di diagnosi e cura sono esemplificati sia nella
quota altissima di negligenze ospedaliere che caratterizza la degenza degli
anziani in ospedale generale, sia nella non piccola percentuale di anziani che
volontariamente modificano la terapia farmacologica prescritta dal curante.
Questo evidenzia un difetto culturale della organizzazione della cura, una vera
e propria insufficienza della diagnosi di malattia come indicatore unico dell'intervento
sanitario. La cura della malattia non è sufficiente, e abbiamo visto il perché:
sono malattie croniche, sono più di una contemporaneamente ("il tutto non e'
l'insieme delle parti" Lao Tsu), creano un intreccio inestricabile fra danno
d'organo, deficit funzionale, handicap ambientale. Occorre un nuovo indicatore,
un nuovo paradigma.
B) Crisi del modello sociale: Il modello sociale di intervento (fornitura
del supporto sostitutivo della funzione) corrisponde ad una visione di sostanziale
separazione fra la instabilità clinica (la fase "acuta" e la riabilitazione
"post acuta") e la gestione delle sequele invalidanti, la disabilità stabile,
che in qualche modo segue la malattia che non uccide. E' un modello sostanzialmente
preso dalle modalità con cui si è affrontato l'handicap infantile, ma che non
corrisponde alla realtà attuale degli anziani disabili, se non per una piccola
percentuale. Gli anni scorsi (fino ai primi anni 80, direi), sono stati caratterizzati
da un progressivo aumento dei bisogni degli anziani non autosufficienti. Così
molti servizi nati per rispondere a bisogni di tipo essenzialmente relazionale
hanno visto aumentare la quota della dipendenza nelle attività della vita quotidiana
da parte degli anziani assistiti. Tipico il caso delle residenze per autosufficienti
che si sono via via trasformate in strutture protette per non autosufficienti.
Oggi il problema si pone in termini ancora diversi. La dipendenza, anche grave,
resta il contesto fondamentale da cui parte la domanda di assistenza, ma il
numero e la gravità dei problemi sanitari, contemporaneamente presenti nella
stessa persona, vanno aumentando. Come indicatori di questo processo possiamo
vedere quanto è successo negli USA, sempre negli anni cruciali fra l'82 e l'86,
sia nelle "Nursing Home" (le RSA americane) sia nei servizi domiciliari. Anche
per i ricoverati nelle strutture protette lombarde, cronici "stabilizzati",
è stata dimostrata un'alta quota di instabilità clinica . Ma è anche esperienza
quotidiana di tutti gli operatori, ad esempio, la sempre maggior convivenza
fra problemi di disabilità fisica e psichica negli anziani che necessitano di
sostegno da parte dei servizi domiciliari o di ricovero nelle Residenze Sanitarie
Assistenziali. In queste condizioni programmare servizi di solo sostegno sociale
degli anziani, senza garantire un intervento sanitario vuol dire accettare di
lasciar loro irrisolta una non piccola quota di sofferenze quotidiane legata
alla instabilità clinica. Vuol dire accettare di rendere questi servizi, domiciliari
o residenziali, dei "contenitori" indifferenziati di anziani disabili. Per impedire
che questo crollo di obiettivi e di qualità immiserisca i servizi sociali, non
sono sufficienti le attività di sostegno della vita quotidiana o quelle, pur
importantissime, del tempo libero, dell'animazione. Occorre che ogni servizio
abbia dentro di se la capacità di mettere in discussione il cammino che l'anziano
quotidianamente percorre fra malattia e disabilità, non semplicemente di accettarlo
così com'è. La cura della malattia è parte integrante della capacità di vivere
di larga parte dei nostri anziani.
La rete di fronte ai nuovi bisogni: la crisi delle Unità Valutative e proposta
di un nuovo modello
Farò riferimento ai modelli che conosco, e quindi sostanzialmente alle Unità
Valutative della Lombardia, per affrontare il tema del "chi" e "come" decide
quale assistenza e quanta, essendo questo il nodo centrale nel rapporto fra
bisogno e risposta, specie se si vuole arrivare ad una sufficiente trasparenza
del processo di erogazione del servizio.
Infatti da noi questo acquista un particolare rilievo "storico", per la introduzione
in larga scala del "bonus" socio sanitario da parte della Regione Lombardia,
secondo modalità "esterne" alle UVG e alla rete dei servizi, come parte di un
complesso processo di riorganizzazione della rete lombarda che tende a passare
dalla erogazione di servizi pubblici alla erogazione di pubblico danaro (è una
rivoluzione metodologica, il cui significato è analizzato a fondo altrove).
A questa scelta però ha anche contribuito l'inefficacia operativa delle Unità
Valutative lombarde, per la maggioranza guidate verso un modello burocratico
e autorizzativo dei cui pericoli ci si era accorti subito (fra l'altro è difficile
fare analisi di risultato, e questo già la dice lunga sulla autoreferenzialità
di questi servizi). In sintesi:
Unità né valutativa né geriatrica. E' stato attuato un uso "generale"
e non geriatrico del metodo della valutazione multidimensionale, inventandosi
parecchi nomi: le "UVM" (unità di valutazione multidimensionale); oppure, in
altre regioni: "UVD" (unità di valutazione distrettuale) quando la letteratura
dimostra chiaramente che ci sono buoni risultati solo in ambito geriatrico,
dove, per altro, la efficacia della valutazione multidimensionale non riguarda
la generalità dei malati, ma solo i casi di sufficiente complessità.
Unità "collocativa". L'obiettivo del buon funzionamento della struttura
dei servizi ha prevalso sul sostegno alla persona e alla famiglia. Il concetto
di "equità" distributiva dei servizi, ha spesso fatto sì che non si sentisse
come obiettivo prioritario quello di modificare i percorsi verso la disabilità
sviluppando capacità prognostiche e di screening preventivo e riabilitativo.
Così si è solo sviluppata una capacità "collocativa" (non "dove meglio può essere
curato" ma "dove lo metto"), con l'unica avvertenza di distribuire lo stesso
errore in modo equo (se non mi pongo domande sulla natura di ciò che faccio,
ma solo sull'equità, ci sono curiosi sviluppi! Se ad esempio distribuisco un
potente veleno in parti uguali, ho fatto un intervento giusto!).
Unità "autorizzativa". Molti servizi vivono dell'essere posti come uno
"sbarramento" verso la rete delle risposte, con cui non si sentono per altro
coinvolti, ma di cui sono decisori esterni ("economia di posizione"). In una
situazione di questo tipo non si è certo sentito il bisogno di sviluppare professionalità
specifiche (ad esempio geriatriche) capaci di intervenire sulla disabilità,
ma sono state favorite le professionalità gestionali e amministrative, trasformando
un servizio socio sanitario in un "tribunalino" (ricordo il caso di un incontro
con medici di un distretto di una ASL Lombarda, che si chiedevano a che cosa
poteva servire il geriatra nella UVG, visto che si trattava solo di assegnare
servizi assistenziali; oppure di quella altra ASL della Lombardia che voleva
mettere un magistrato nella UVG, tanto per essere chiari!). Un intervento che
non viene richiesto da chi ha bisogno, ma solo dalla struttura gestionale dell'ASL,
contiene in sé un errore di partenza che solo laddove è esistita una grande
motivazione personale e culturale degli operatori è stato riparato. In pratica
viene garantita l'autorità dell'intervento indipendentemente dalle capacità
che sa esprimere: la deriva burocratica di tante UVG ha la sua spiegazione principale
in questo monopolio obbligato e non controllato nei risultati.
Unità "svalutativa". Il problema della non personalizzazione, dell'anonimato
del servizio. Questo è un ottimo indicatore di una equipé "senza responsabilità",
che non si fa carico di nessun obiettivo, che non prende a cuore il destino
o la salute di nessuno, ma esegue il suo compito valutativo solo come applicazione
di una serie di strumenti. In questa confusione di mezzi e fini che è oggi alla
base della crisi della medicina clinica, vi è anche l'aggravante di una visione
sempre più classificatoria e "botanica" dei compiti medici. Per cui la valutazione
multidimensionale invece di essere uno strumento interpretativo per risolvere
problemi e aiutare meglio chi soffre, diviene il fine della attività delle UVG,
che in qualche modo solo "descrivono" meglio la disabilità, così come spesso
le "diagnosi" cliniche sono classificazioni senza substrato eziologico o fisiopatologico.
Il fatto di occuparsi più spesso di relazioni scritte e di scale di valutazione
che di persone, porta ad una lontananza, non solo psicologica, dal bisogno reale.
Viene infatti sottratta ogni possibilità "contrattuale" alla persona e alla
famiglia, schiacciate da una presenza istituzionale e da "regole" indiscutibili
quanto, ai più, sconosciute.
E' solo un esempio di come si può fare un servizio "nuovo" con criteri e funzioni
vecchie e sbagliate. La reale novità metodologica conseguente ai nuovi problemi
che abbiamo di fronte sta quindi più nel "come" fare i servizi, piuttosto che
nell'inventare continuamente nuovi nomi. Se invece tornassimo ad applicare dei
modelli consultoriali e di tutoring, già largamente praticati in Lombardia per
vent'anni , potremmo far vivere di nuova vita le UVG che se lo sono meritato,
sul campo; delle altre non sentiremmo la mancanza. Quindi, una Unità Valutativa
che opera come un "consultorio geriatrico", ha il compito non di "valutare",
ma di promuovere il benessere e la salute degli anziani che valuta, con un forte
sbilanciamento di tipo preventivo. Ma per fare questo:
a) ha il compito di vedere le persone e non le "carte"; cioè non si basa
solo su relazioni scritte e numeri per definire i problemi, ma coglie quell'insieme
insostituibile di elementi che è l'incontro con gli altri, con chi ha bisogno.
Oltre al non trascurabile fatto che così anche chi ha bisogno vede noi, è soprattutto
il fatto che in tal modo si esprime la volontà non di semplicemente "collocare"
la disabilità, ma di mettere in discussione il percorso verso la dipendenza
e la perdita dei compensi biologici e sociali. Per fare questo ci vuole un medico
geriatra bravo e non un "responsabile organizzativo" di servizi; occorre una
cultura fisiopatologica specifica per offrire al malato una nuova chance, prima
di decidere che non vi sono altre possibilità; per questo ci vogliono anche
operatori sociali disposti a mettere in gioco e in comune la propria cultura,
non limitandosi a fare i segretari di lusso delle ASL o a rivestire i panni
di chi solamente "tollera e comprende" la disabilità ma non dà mai obiettivi
di miglioramento o di recupero;
b) è responsabile del sostegno alla scelta della soluzione del caso/problema
fino alla sua conclusione; non la ASL ma un "io" è responsabile, una persona
che risponde a una persona che chiede. Non si "risponde", se si è solo lì a
rappresentare altri che decidono ma che non ci sono. L'indicatore di successo
o di insuccesso non è quindi quante domande sono arrivate, o a quante abbiamo
dato "una" risposta: ma a quante abbiamo dato "la" risposta che viene incontro
alla domanda, che ha capito la domanda; quindi: quanti casi sono andati a buon
fine e sono soddisfatti, quanti hanno effettivamente potuto seguire le indicazioni
date? Fino alla soluzione, esiste il "responsabile" del caso, non solo fino
al momento della valutazione e della proposta della UVG, ma fino a quando questa
risposta viene accettata come soluzione adeguata e possibile;
c) viene attivata su richiesta (del medico, della famiglia, dell'interessato,
degli altri servizi), in modo da far vivere solo il servizio che dia un
valore aggiunto desiderabile per la soluzione del caso. L'UVG consultoriale
non si trova a "sbarrare la strada" verso la erogazione di un servizio, ma è
al contrario una guida e sostegno per casi più complessi. Si "conquista" i suoi
clienti dimostrando che il suo intervento aiuta famiglia e persona, che devono
però poter decidere di fare a meno del suo intervento. Se l'équipe che interviene
ha capacità da mettere a disposizione, non mancheranno certo le richieste (i
nostri "consultori geriatrici" che agiscono con questa filosofia dal 1979, hanno
avuto in media 7 - 800 visite all'anno, in un territorio inizialmente di 60
mila abitanti).
Conclusioni: un nuovo paradigma di cura
Alla fine la strada su cui incamminarsi è quella della proposizione di un
nuovo obiettivo globale di cura, che unisca il percorso dei servizi sociali
e sanitari, anche se le modalità per raggiungerlo fanno naturalmente capo a
scienze e saperi operativi che restano assai diversi. Ma senza un terreno comune,
un obiettivo condiviso, la via maestra per garantirsi efficienza senza distruggere
l'efficacia, cioè il creare integrazioni e sinergie, resta una via non percorribile.
Questo obiettivo abbiamo visto non è la sola cura della malattia, né la creazione
di 'contenitori' sempre più esteticamente gradevoli per i nostri anziani. Il
cambio di prospettiva proposto è in realtà semplicissimo: si tratta di passare
dalla malattia alla salute come obiettivo principale dei servizi per anziani
sia sul versante sanitario che su quello sociale. Lo "stare bene", inteso sia
come integrità funzionale che come percezione della persona verso se stessa
e il suo ambiente, è quindi l'obiettivo proposto per l'integrazione e l'approccio
olistico alla persona anziana. In termini ancora più semplici possiamo parlare
di promozione e sostegno della autonomia dell'anziano, come obiettivo riassuntivo
di tutto il sistema socio sanitario. Si badi bene che non si tratta di un approccio
sentimentale, che lascia immutato il sistema. Basti pensare alla diversa gerarchia
epidemiologica in merito ai disturbi prevalenti, dal momento ad esempio che
le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte, ma solo la quarta
causa di dipendenza funzionale; mentre al primo posto come causa di disabilità
troviamo le malattie neurologiche e psichiche. Basti ancora pensare al diverso
concetto di prevenzione (non solo evitare le malattie ma promuovere l' autonomia),
di riabilitazione (non il solo ripristino della funzione, ma la capacità complessiva
di interagire autonomamente con l'ambiente), di cura (sostegno "protesico" all'autonomia
in crisi, cura della malattia senza rovinare la salute), che ne scaturisce.
Ma questa, come si dice, è un'altra storia.
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