I nuovi LEA sociosanitari. Alcune positive novità e nodi di sistema da affrontare Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà, in Appunti sulle politiche sociali, n. 3/2008 Una analisi dei contenuti del nuovo decreto di modifica dei LEA che interviene anche su quelli sociosanitari; si segnalano alcune novità positive insieme a mancate auspicate modifiche. La riflessione affronta altri nodi riguardanti i servizi sociosanitari. L’offerta dei servizi e le quote a carico degli utenti. Obiettivo del presente contributo è quello di analizzare le modifiche apportate dal recente decreto[1] (consultabile in www.grusol.it) con il quale sono stati ridefiniti i nuovi livelli essenziali di assistenza sanitaria che ricomprendono al capo IV (art. 21-34), anche l’assistenza sociosanitaria. Vengono pertanto modificate le indicazioni contenute nell’allegato 1c del Dpcm 29.11.01 a riguardo delle prestazioni socio sanitarie[2] . Viene modificata anche la modalità di presentazione delle competenze tra settore sanitario e sociale; non più attraverso l’utilizzo di tabelle nelle quali si definivano le prestazioni, il riferimento normativo, la percentuale di costi eventualmente a carico dell’utente o comune, il riferimento all’atto di indirizzo sulle prestazioni sociosanitarie (Dpcm 14.2.2001), ma specificando all’interno dello stesso articolato la tipologia di interventi. In particolare non si fa più riferimento alle “prestazioni” ma ci si riferisce a “trattamenti” (intensivi, estensivi, di lungoassistenza, di mantenimento). Non si tratta quindi di una semplice modifica delle percentuali a carico del settore sanitario o di quello sociale, ma di una nuova articolazione nella quale oltre alla specificazione della divisione degli oneri vengono forniti con maggior dettaglio informazioni sulle necessità dell’utente e sulla specificità del “trattamento” (ad es: indicazione della tutela sanitaria con continuità assistenziale, presenza infermieristica sulle 24 ore, …). All’art. 21 viene specificato che i percorsi domiciliari, diurni e residenziali cui si riferiscono gli articoli (21-34) prevedono l’erogazione congiunta di attività e prestazioni dell’area sanitaria e dei servizi sociali. Si rimanda inoltre ad un apposito atto della Conferenza unificata nel quale saranno fornite linee di indirizzo “volte a garantire omogeneità nei processi di integrazione istituzionale, professionale e organizzativa delle suddette aree”. Gli art. 22 e 23 riguardano le cure domiciliari, quelli da 24 a 28 stabiliscono le prestazioni garantite dal servizio sanitario nazionale ai minori, alle donne, alle coppie, alle famiglie, alle persone con disturbi mentali, ai minori con disturbi neuropsichiatrici, alle persone disabili, alle persone con dipendenze patologiche. Dal 29 al 34 gli interventi sociosanitari in regime residenziale e diurno per persone: non autosufficienti, in fase terminale, con disturbo mentale, disabili, con dipendenze patologiche. Le cure domiciliari Le cure domiciliari vengono articolate in tre livelli (vedi scheda) e vengono integrate da prestazioni di aiuto personale e di assistenza tutelare. Viene ribadita l’indicazione, confermando quanto già stabilito dal Dpcm 29.11.01, che tali prestazioni sono a carico del servizio sanitario per una quota pari al 50%; superando l’ambiguità del precedente decreto nel quale si faceva riferimento anche a prestazioni di aiuto infermieristico (chiarimento poi avvenuto attraverso il tavolo di monitoraggio e verifica dei LEA della Conferenza Stato regioni)[3]. Si aggiunge inoltre (art. 23), le cure palliative domiciliari destinate alle persone nella fase terminale della malattia che sostanzialmente prevede la garanzia per i malati terminali dell’assicurazione delle cure domiciliari di 3° livello. Scheda a) cure domiciliari prestazionali: costituite da prestazioni professionali in risposta a bisogni sanitari di tipo medico, infermieristico e/o riabilitativo, anche ripetuti nel tempo, che non richiedono la “presa in carico” della persona, né la valutazione multidimensionale. Le cure domiciliari prestazionali sono attivate dal medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta o da altri servizi distrettuali; b) cure domiciliari integrate (ADI) di I^ e II^ livello: costituite da prestazioni professionali di tipo medico, infermieristico e riabilitativo, assistenza farmaceutica e accertamenti diagnostici a favore di persone con patologie o condizioni funzionali che richiedono continuità assistenziale ed interventi programmati articolati sino a 5 giorni ( I^ livello) o su 6 giorni ( II^ livello) in relazione alla criticità e complessità del caso. Le cure domiciliari di primo e secondo livello richiedono la valutazione multidimensionale, la “presa in carico” della persona e la definizione di un “Progetto di assistenza individuale” (PAI), e sono attivate con le modalità definite dalle regioni anche su richiesta dei familiari o dei servizi sociali. Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta assume la responsabilità clinica dei processi di cura, valorizzando e sostenendo il ruolo della famiglia; c) cure domiciliari integrate a elevata intensità (III^ livello): costituite da prestazioni professionali di tipo medico, infermieristico e riabilitativo, assistenza farmaceutica e accertamenti diagnostici a favore di persone con patologie che, presentando elevato livello di complessità, instabilità clinica e sintomi di difficile controllo, richiedono continuità assistenziale ed interventi programmati articolati sui 7 giorni anche per la necessità di fornire supporto alla famiglia e/o al caregiver. Le cure domiciliari ad elevata intensità sono attivate con le modalità definite dalle regioni e richiedono la valutazione multidimensionale, la presa in carico della persona e la definizione di un “Progetto di assistenza individuale” (PAI). La responsabilità clinica è affidata al medico di medicina generale, al pediatra di libera scelta o al medico competente per la terapia del dolore, secondo gli indirizzi regionali. Assistenza residenziale extraospedaliera ad elevato impegno sanitario Particolarmente rilevante è il contenuto dell’art. 29, “Assistenza residenziale extraospedaliera ad elevato impegno sanitario” nel quale si stabilisce che “Il Servizio sanitario nazionale garantisce trattamenti residenziali intensivi di cura, recupero e mantenimento funzionale, ad elevato impegno sanitario ed assistenziale alle persone con patologie non acute, incluse le condizioni di responsività minimale e le gravi patologie neurologiche, caratterizzate da complessità, instabilità clinica e/o gravissima disabilità, che richiedono supporto alle funzioni vitali e continuità assistenziale con pronta disponibilità medica e presenza infermieristica sulle 24h.. I trattamenti sono costituiti da prestazioni professionali di tipo medico, psicologico, riabilitativo, infermieristico e tutelare, assistenza farmaceutica ed accertamenti diagnostici. I trattamenti (…) sono a totale carico del SSN”. In sostanza si conferma che in situazioni non acute, incluse le condizioni di responsività minimale e le gravi patologie neurologiche, caratterizzate da complessità, instabilità clinica e/o gravissima disabilità, che richiedono supporto alle funzioni vitali e continuità assistenziale con pronta disponibilità medica e presenza infermieristica sulle 24h., la spesa per l’assicurazione di queste prestazioni, che non hanno limiti di durata, in regime residenziale è a completo carico del fondo sanitario. In nessuna, quindi, di queste condizioni possono essere imposti oneri a carico degli utenti. L’assistenza sociosanitaria diurna e residenziale per persone “non autosufficienti, con disturbi mentali, disabili” E’ da notare che non figura più il riferimento alla persona anziana (art. 30) non autosufficiente (come faceva l’atto di indirizzo sull’integrazione sociosanitaria e il precedente decreto sui LEA) ma ci si riferisce alle persone non autosufficienti. Rispetto alla normativa precedente in riferimento alle persone con forme di demenza, sia per quanto riguarda il regime residenziale che diurno la quota del servizio sanitario passa dal 50 al 60% (non vengono più considerati “trattamenti di lungoassistenza”, ma “trattamenti estensivi di riorientamento”); rimane invece al 50% l’assunzione di oneri nei trattamenti diurni e residenziali rivolti a “persone non autosufficienti”. Da sottolineare è la formulazione, sempre all’art. 30 del primo comma, let. a), “Nell’ambito dell’assistenza residenziale, il Servizio sanitario nazionale garantisce alle persone non autosufficienti, previa valutazione multidimensionale e presa in carico: a) trattamenti intensivi ed estensivi di cura e recupero funzionale a persone non autosufficienti con patologie che pur non presentando particolari criticità e sintomi complessi richiedono elevata tutela sanitaria con continuità assistenziale e presenza infermieristica sulle 24 ore. I trattamenti sono costituiti da prestazioni professionali di tipo medico, infermieristico e riabilitativo e tutelare, assistenza farmaceutica e accertamenti diagnostici. (…) I trattamenti intensivi ed estensivi di cui al comma 1, lettera a) sono a totale carico del Servizio sanitario nazionale. Anche in questo caso va fatto notare come dalla formulazione non emerga alcun limite di durata rispetto alla garanzia, da parte del SSN, dei trattamenti specificati. Per quanto riguarda l’assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale alle persone con disturbi mentali vengono indicate, sulla base della intensità assistenziale, tre tipologie di trattamento. a) Trattamenti residenziali terapeutico-riabilitativi intensivi; b) Trattamenti residenziali terapeutico-riabilitativi estensivi; c) Trattamenti residenziali socio-riabilitativi. Le prime due tipologie di prestazioni sono a completo carico del SSN. Nel primo caso la durata massima del trattamento è prevista in 18 mesi, nel secondo di 36 salvo proroga (i trattamenti semiresidenziali non definiscono limiti di durata, possono essere rivolti anche a minori e sono a completo carico della sanità). Invece i trattamenti residenziali socio riabilitativi (rivolti a soggetti parzialmente non autosufficienti erogati in strutture con personale sociosanitario per almeno 12 ore) sono finanziati dal SSN per una quota pari al 40% del costo retta. In questo caso si è assunta la ripartizione del precedente decreto che prevedeva a completo carico della sanità le strutture indicate dal Progetto obiettivo salute mentale 1998-2000 e gli oneri al 40% delle cosiddette strutture a bassa intensità assistenziale. Infine l’assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale alle persone con disabilità. I trattamenti in regime diurno e residenziale vengono distinti in socio-riabilitativi intensivi-estensivi e di mantenimento. Le prime due tipologie sono a completo carico del SSN; nei trattamenti di mantenimento per disabili gravi (diurno e residenziale) la sanità copre il 70% della retta; in quelli per “disabili privi di sostegno familiare”, la quota coperta dalla sanità è del 40%; così come per i “trattamenti diurni socio riabilitativi di recupero in laboratori e centri occupazionali”. Per quanto riguarda la disabilità sono introdotte diverse novità. Per il residenziale si confermano le indicazioni del precedente decreto (100% intensivo-estensivo; 70% disabili gravi; 40% disabili privi di sostegno familiare). Notevoli invece le differenze (con qualche confusione) per il semiresidenziale (100% intensivo-estensivo; 70% disabili gravi; 40% disabili privi di sostegno familiare, e trattamenti di recupero in laboratori e centri occupazionali). Viene aggiunto un semiresidenziale al 40% per i disabili non gravi e per coloro che frequentano laboratori e centri occupazionali. Forse una svista il riferimento alla fruizione del diurno per disabili privi di sostegno familiare (nel precedente decreto il riferimento era solo alla residenzialità). Ci si chiede: se sono prive di questo vitale sostegno come possono ricevere un servizio solo per le ore diurne? Ma soprattutto, forse in risposta alle sollecitazioni di diverse Regioni nei quali sono presenti servizi occupazionali diurni, si innova rispetto alla precedente normativa prevedendo la realizzazione ed il finanziamento di centri diurni anche per soggetti non gravi (finanziati al 40%). Sarebbe forse stato più opportuno che invece di richiamare “laboratori e centri occupazionali” si fosse lasciata alle Regioni la possibilità sulla base della gravità e quindi sugli standard previsti di differenziare la quota di compartecipazione. Le principali modifiche. Il nuovo decreto apporta dei miglioramenti rispetto al precedente soprattutto nella articolazione dei diversi livelli assistenziali nelle cure domiciliari e nella assistenza ospedaliera ad elevato impegno sanitario (art. 29), così come riguardo ai trattamenti intensivi ed estensivi alle persone non autosufficienti in particolare anziani (art. 30, comma 1, lett. a). Il passaggio dal 50 al 60% della retta sanitaria nei trattamenti estensivi di riorientamento per persone con demenza senile appare largamente insufficiente. Un problema significativo si pone per i Centri diurni nei quali le quote assoggettate agli utenti (e, nonostante la normativa vigente, ai loro familiari) sono spesso insopportabili, tali da limitare la frequenza degli stessi. Confermate e rinforzate le garanzie riguardo ai trattamenti domiciliari e residenziali rivolti a malati terminali. Non hanno, purtroppo, subito variazioni le percentuali (50%) nella cosiddetta lungoassistenza per persone non autosufficienti ed è rimasta l’indicazione del 40% nei trattamenti socio riabilitativi per soggetti con disturbi mentali parzialmente non autosufficienti (con personale sociosanitario per almeno 12 ore). Aspetti, questi, assolutamente negativi che richiedevano nel caso degli anziani non autosufficienti almeno l’assimilazione con quelli con forme di demenza; del tutto problematico rimane la situazione riguardante il “disturbo mentale” considerata l’indicazione di una degenza a termine dei percorsi intensivi ed estensivi. Riguardo alla disabilità è stato già detto. Problemi non rinviabili Le modifiche e in alcuni casi i miglioramenti del nuovo decreto sui LEA in tema di assistenza sociosanitaria non possono far dimenticare i problemi più generali riguardanti l’assistenza sociosanitaria che hanno assoluta necessità di essere affrontati e non ulteriormente rinviati. La definizione dell’offerta, gli standard, l’incoerenza tra classificazione e funzioni. La garanzia dei trattamenti da parte del SSN se non è accompagnata dalla presenza ed erogazione dei servizi, ne rende vana l’assicurazione. In sostanza, senza la definizione degli standard di offerta a livello territoriale (allo stesso modo dell’offerta ospedaliera) con l’obbligatorietà della realizzazione quella garanzia viene meno. In questo senso c’è da dar corso ai documenti predisposti dal “sottogruppo socio-sanitario” della Commissione nazionale sui LEA[4], in particolare di quello sulle prestazioni residenziali e semiresidenziali. C’è la necessità, pur con tutte le difficoltà, di definire standard di offerta e di personale. Il problema va affrontato e risolto con le Regioni. Non è possibile che nei servizi territoriali venga mantenuta questa situazione che rende, lo ripetiamo, moltissime volte vana, l’affermazione della assicurazione e garanzia dei trattamenti così come indicati. Vano il diritto alla fruizione delle cure sanitarie in tutte le sue articolazioni (dall’ospedale fino al domicilio) così come la nostra legislazione stabilisce. A cascata con quanto sopra si aggiunge il problema della incoerenza tra classificazione e funzioni delle strutture. Strutture per autosufficienti accolgono impunemente malati non autosufficienti anche gravi, strutture sociosanitarie per malati non autosufficienti stabilizzati accolgono malati in post acuzie. Ovviamente le strutture mantengono le loro regole di funzionamento a tutto danno dei malati (standard di assistenza e quote di compartecipazione)[5]. Il problema va affrontato, necessariamente, insieme a quello dell’offerta di riabilitazione (anche quella intensiva extraospedaliera) e lungodegenza post acuzie. Affrontarlo significa anche in questo caso ridefinire lo standard di offerta (di gran lunga inferiore, nella maggior parte delle regioni italiane agli standard previsti), ma anche le regole di funzionamento. Non pare ci sia adeguata riflessione rispetto ai problemi che pone l’abbattimento della tariffa (in genere 30-40%) dopo il 60° giorno di degenza. Troppo spesso si è di fronte ad una gestione amministrativa delle degenze in luogo di quella terapeutica. Gli oneri a carico degli utenti. Pur con alcuni apprezzabili modifiche i nuovi LEA mantengono oneri importanti a carico degli utenti e se il loro reddito è insufficiente dei Comuni. Solo per la lungoassistenza rivolta ad anziani non autosufficienti, là dove gli standard sono adeguati, le rette medie a carico degli utenti si attestano intorno ai 50 euro al giorno (molto spesso sono anche più alte per la mancata assunzione del 50% degli oneri da parte delle ASL). La normativa vigente in tema di partecipazione al costo dei servizi socio assistenziali non lascia dubbi rispetto la fatto che per disabili gravi e anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti certificati dalle Aziende sanitarie, il reddito di riferimento ai fini della compartecipazione va calcolato solo su quello dell’utente e non dei familiari. Ripetuti interventi dei TAR (Sicilia, Toscana, Marche, Lombardia) negli ultimi mesi hanno inequivocabilmente confermato tale indicazione[6]. Ciononostante il numero di Comuni che applica tale normativa è assolutamente minoritario e accade in genere solo la dove è molto forte la pressione delle associazioni di tutela e degli utenti[7]. Il problema delle quote sociali, anche quando troppo alte rispetto a quelle sanitarie, si porrebbe dunque in maniera limitata se l’utente fosse chiamato a partecipare - come da normativa - solo con i suoi redditi. La questione è invece assai rilevante - come dimostrano alcune ricerche che documentano l’impoverimento di nuclei familiari per le spese connesse con l’assistenza di un congiunto - in quanto quasi sempre i comuni addossano gli oneri derivanti dalla quota sociale sugli utenti, sui loro familiari e sui parenti tenuti agli alimenti. Nei servizi socio sanitari si sommano, pertanto, più problemi: - le quote a carico della sanità sono quasi sempre inferiori (su tutte la lungoassistenza per non autosufficienti) rispetto a quanto si dovrebbe, con conseguente trasferimento su quelle sociali al fine di ridurre gli oneri a carico del fondo sanitario (in questo senso fortissima è la pressione delle regioni); - le Asl, molto spesso, non finanziano - avallate dalle Regioni - i servizi con le percentuali indicate dalla normativa (valga per tutti in molte regioni italiane il mancato finanziamento al 50% della spesa dell’assistenza tutelare, con il risultato che la prestazione, seppur da garantire, non viene erogata o come nella lungoassistenza per anziani i posti “convenzionati” sono di gran lunga inferiori al bisogno con conseguenti lunghe, quando sono create, liste di attesa); - le quote sociali, soprattutto nei servizi rivolti ad anziani non autosufficienti, vengono per la massima parte, caricate interamente dai Comuni sugli utenti e suoi loro parenti. Va ripetuto, per la rilevanza della questione, che il problema di quote sociali estremamente alte è dettato dalla ridotta assunzione degli oneri sanitari da parte delle ASL[8]. Nei fatti, come detto, tranne pochissime situazioni i Comuni rispettano tale indicazione e lo fanno o per una forte pressione degli utenti o per l’intervento della magistratura. Gli stessi motivano la loro posizione, formalmente, per la mancata emanazione del decreto previsto dal d. lgs 130/2000 e con l’insufficienza delle risorse a loro disposizione per coprire tali costi; ma diffusa è la convinzione, soprattutto per gli interventi rivolti agli anziani non autosuffcienti, che ragioni di equità e giustizia chiedono di far riferimento a redditi familiari e non individuali degli utenti. La partecipazione al costo del servizio con il solo reddito dell’utente avvantaggerebbe le famiglie benestanti, che così fruirebbero della integrazione comunale. I Comuni avrebbero, di conseguenza, meno risorse per le situazioni di maggior bisogno e per altri servizi. Tale tesi è sostenuta anche da Cristiano Gori, “L’Isee individuale pare in teoria una misura a favore dei più deboli, ma la sua concreta diffusione avrebbe conseguenze di altra natura. Bisognerebbe trovare strade differenti per evitare l’utilizzo indiscriminato dell’Isee familiare e per tutelare i nuclei più vulnerabili. Ci vorrebbero indicazioni nazionali che trovino un punto di equilibrio tra la protezione di chi è meno forte economicamente e il ricorso alla solidarietà intrafamiliare. Indicazioni costruite sul dato di realtà e capaci di differenziare tra tipologie di utenti (anziani/disabili), così come di intereventi (domiciliare/residenziale)”[9]. La questione va affrontata e non può e deve essere disconosciuta. Nei fatti, oggi, le rette a carico degli utenti, per i motivi sopra elencati, sono quasi sempre insopportabili e spesso causa di impoverimento dei nuclei familiari[10]. Il ricovero in struttura quand’anche necessario, in molte situazioni, deve fare i conti con rette spesso proibitive; la normativa vigente al proposito non lascia dubbi circa la richiesta di contribuzione sul solo reddito dell’utente. Al pari è assolutamente constatabile quanto la normativa venga disattesa e le difficoltà degli utenti a resistere di fronte a richieste troppo spesso vessatorie con contenziosi che quando presenti sono particolarmente pesanti da sostenere. Ma il punto centrale sul quale la discussione non può essere rinviata è quello riferito alle questioni di equità e giustizia. Su questo punto la riflessione, l’approfondimento e l’analisi delle proposte, tenendo conto del complessivo dei problemi come sopra elencati, non può che trovare buona accoglienza; a patto che principio e fine di ogni ragionamento sia inequivocabilmente equità e giustizia [1] Il decreto approvato nel mese di aprile, al momento in cui scriviamo non è stato ancora pubblicato in gazzetta ufficiale. [2] Per un approfondimento, F. Ragaini, Dalla riforma ter ai livelli essenziali di assistenza, Appunti sulle politiche sociali, n. 3/2002; F. Ragaini, Riforma e livelli esenziali di assistenza, Prospettive sociali e sanitarie, n. 16-2002; M. Perino, Prestazioni socio sanitarie e competenze istituzionali, Appunti sulle politiche sociali, n. 5/2002; F. Pesaresi, La suddivisione dei costi tra sociale e sanitario, in C. Gori (a cura di), “La riforma dell’assistenza ai non autosufficienti”, Bologna, Il Mulino, 2006. [3] Cfr, F. Pesaresi, L’organizzazione delle cure domiciliari nelle Regioni, Appunti sulle politiche sociali, n. 2-2008, p. 11. [4] I documenti riguardano la “Nuova caratterizzazione dell’assistenza territoriale domiciliare e degli interventi ospedalieri a domicilio”, e “Prestazioni residenziali e semiresidenziali”. Cfr, F. Pesaresi, Le cure domiciliari in Italia. Riferimenti organizzativi, Appunti sulle politiche sociali, n. 1-2008, p. 8; E. Brizioli, Il documento del Ministero della salute sui servizi residenziali e semiresidenziali per anziani non autosufficienti, Appunti sulle politiche sociali, n. 6-2007, p. 2. [5] Per chi volesse approfondire con dettaglio si rimanda, Gruppo Solidarietà (a cura di), Quelli che non contano. Soggetti deboli e politiche sociali nelle Marche, 2007. [6] D. lgs 109/1998, come modificato dal D.lgs 130/2000. Molte delle sentenze e ordinanze sono consultabili nel sito del Gruppo Solidarietà, www.grusol.it [7] Si veda in proposito l’azione del CSA di Torino, www.fondazionepromozionesociale.it [8] Nelle Marche, ad esempio, in pochissimi territori le Zone sanitarie (nelle Marche esiste l’Azienda sanitaria unica regionale - Asur) assumono parte del costo retta nei servizi semiresidenziali per disabili gravi; nelle residenze protette per anziani la quota giornaliera prevista per la sanità è di 33 euro (50%), nei fatti solo il 10% dei posti convenzionati riceve tale quota, il restante 90 riceve ne riceve la metà (16 euro). La quota sociale - a carico dell’utente - passa così, il più delle volte, dal 50 al 75%. [9] Cfr, C. Gori, Prove di riforma, Prospettive sociali e sanitarie, n. 4-2008, p. 1. [10] Cfr, in www.grusol.it la sentenza del Tar della Lombardia n. 291/2007; il Comune di Milano chiedeva ai genitori per il ricovero del loro figlio con handicap grave 22 mila euro all’anno, i loro redditi complessivi erano di 36 mila euro.