Data di pubblicazione: 19/11/2013
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La vista corta. Riflessioni su una delibera della Regione Marche

In “Appunti sulle politiche sociali”, n. 5-2013 – www.grusol.it

Andrea Canevaro, Docente di pedagogia, Università di Bologna

Una riflessione sui contenuti di una recente delibera della regione Marche sul modello assistenziale nei servizi sociosanitari. Un errore grave è l’idea che delle persone non autosufficienti possano occuparsi solo strutture di contenimento. La necessità di un welfare di prossimità: istituzioni che avvicinano invece di allontanare.

Una delibera che provocherà guasti anche economici

La delibera della Regione Marche a proposito delle persone non autosufficienti è un errore grave, dovuto alla vista corta. Un errore per almeno due ragioni:

- l’idea, sbagliata, che si risparmi. Mancando i soldi per un welfare impostato fondamentalmente sulle strutture pubbliche, invece di ripensare il welfare, possiamo essere credibili concentrando le risposte ai bisogni? Una prospettiva di questo genere porta ad un apparente risparmio immediato, con un aumento delle spese in prospettiva, accompagnato, ahimè, da un quasi inevitabile scadimento della qualità dei servizi. Solo ignorando la storia delle istituzioni possiamo compire tali errori. Spiace dirlo, ma sono errori da ignoranti.

- L’idea, pericolosa, che delle persone non autosufficienti non possano occuparsi che strutture “di contenimento”. Che, con numeri rilevanti, producono un effetto di produrre una dinamica sociale di lontananza con conseguenze che possono facilmente diventare tragiche.

Al contrario, occorre sottolineare l’esigenza di costruire una dinamica di produzione sociale di vicinanza. Un welfare di prossimità. Questa linea di continuità nella vicinanza è la dinamica  che porta a passare da istituzioni che allontanano ad altre, che avvicinano. I grandi contenitori mascherano le differenze all’interno di categorie riduttive basate su elementi che sarebbero da intrecciare a storie diverse, in persone diverse, che invece vengono cancellate da una sola indicazione, in questo caso non autosufficienza. Questo probabilmente viene fatto, ma non forse con una piena coscienza.  La produzione sociale di lontananza è particolarmente pericolosa, perché – la storia è chiara, in proposito – può permettere decisioni con ricadute tragiche.

Al contrario, la produzione sociale di vicinanza, - raggiungere un abbattimento delle barriere organizzative - è legato ad un riconoscimento di una realtà ampia e non amputata, e questo significa potere individuare in una condivisione di base dei bisogni l’elemento di appartenenza: apparteniamo a un gruppo umano che ha bisogni simili. Nel “noi” vi è tanto la persona disabile che la persona atleticamente prestante, tanto la persona performante - come oggi viene detto – quanto la persona che ha una età avanzata, delle difficoltà a realizzare tutti i compiti in autonomia, e ha bisogno degli altri.

La persona molto capace di far da sé e la persona molto bisognosa dell’aiuto degli altri hanno dei bisogni comuni. Sono vicini. E’ la larga base di una piramide che ha più punti, probabilmente. La base comune è ampia, e permette di alzare le punte verso dei bisogni più individualizzati. Ma in comune vi è una base.

Occorre cercare di chiarire il termine sociale. Perché parliamo di produzione sociale? Una semplice risposta può essere: perché non è individuale. Ma non basta. E’ una produzione che si avvale e si produce con un intreccio continuo ed un accumulo di relativamente piccole azioni, sovente non esplicitamente finalizzate all’effetto che producono nell’insieme. L’avvio dell’integrazione di soggetti disabili nella scuola ordinaria italiana, è stato prodotto proprio in seguito ad un accumulo di elementi che non avevano quello scopo. La scuola media unica, l’organizzazione del percorso scolastico non per livelli ma per processo, la forte spinta migratoria interna dalle campagne alle città e dal sud al nord, e molti altri piccoli e grandi avvenimenti, molte piccole e grandi decisioni, hanno prodotto una dinamica sociale di avvicinamento. E’ per questo che cerchiamo di contrastare i tentativi che sono fatti periodicamente di distinguere e separare i soggetti definiti impropriamente “gravi” e “gravissimi”. Dico che è improprio definirli così, non perché non vi siano persone che vivono con disabilità plurime e gravi, ma perché questo termine è tutto fuorché una definizione. Avere con sé, vicina, una compagna indicata come grave, permette di sviluppare competenze, sia sociali che cognitive. Ma la vicinanza fisica non è una garanzia sufficiente. Deve e può sviluppare una vicinanza culturale, che è richiamata proprio dallo sviluppo delle competenze.

La vicinanza non è solo fisica. E non è neanche strettamente ed esclusivamente legata alla condivisione del tempo storico. Possiamo sentirci vicini a chi è vissuto in altre epoche. Ma è chiaro che vi sono diverse vicinanze.

E vi è una vicinanza che in realtà può essere una lontananza. Un certo gusto per il caso straordinario, anche sottolineato ed incorniciato dai mezzi di comunicazione, può illuderci che un certo soggetto raggiunga molte persone e sia loro vicino. Ma l’eccezionalità può allontanare. Accade che la lontananza che permette l’esclusione può avere eccezioni che confermano la regola. Il personaggio santificato permette di demonizzare con maggiore disinvoltura tanti. Così ci può essere lo zingaro buono, il disabile fenomenale, il tossico geniale accanto ad esclusioni dure di zingari considerati ladri, disabili considerati zavorra, tossici considerati minaccia.

Storie tragiche

Il governo dei nazisti guidato da Hitler ha deliberatamente organizzato un programma di eliminazione fisica di bambini e bambine disabili, e di malati psichiatrici. Il programma era nascosto sotto una sigla pacificamente burocratica, T4, derivato dal numero civico e dalla prima lettera del nome di una tranquilla strada berlinese.

Il programma era stato preceduto da molte decisioni apparentemente di ordine e senso non collegate alla tragica scelta genocidiaria. Ma permettevano un graduale e continuo allontanamento, una distanziazione che permetteva di mantenere la soluzione finale in un ambito procedurale tecnico, senza preoccupazioni di carattere etico e sociale. Se le buone prassi esigono una conoscenza sempre rinnovata dell’intero processo, una “cattiva prassi” si basa sulla frantumazione delle mansioni, e sulla concentrazione esclusivamente tecnica.

Nella Francia di Vichy non vi fu un disegno deliberata di soppressione di malati psichiatrici ricoverati negli ospedali, o manicomi. Ma la riduzione delle risorse attribuite ai manicomi incise sul riscaldamento come sul cibo. In pochi mesi morirono 50.000 degenti. Ciascun ospedale ritenne di avere un’emergenza transitoria. Solo successivamente, mettendo insieme i dati, emerse una quantità così tragica.

Questo ci permette di capire l’importanza di un osservatorio, di un centro di documentazione.

Un osservatorio permette di avere dei dati e di cercare di capire, e di segnalare dinamiche decisionali che sembrano assolutamente lontane dal  nostro settore. Le affermazioni di principio per cui l’integrazione non si tocca sono quotidiane. Nello stesso tempo si svuotano di significato e arriva l’ondata che rende possibile, se non stiamo attenti e teniamo d’occhio un orizzonte vasto e raccogliamo i dati, di avere poi un accumulo con cifre  drammatiche.

La situazione degli ospedali psichiatrici francesi  è molto interessante da osservare perché un intreccio di decisioni amministrative  giustificate, possono arrivare a quel risultato.

Nella  dinamica della produzione di lontananza, la falsa idea è quella di tenere lontano una parte dell’umanità composta da elementi indiscutibilmente scomodi, impegnativi. Come le persone non autosufficienti.

Servizi e reti sociali

Negli anni scorsi, i Servizi hanno vissuto una stagione paradossale, relativamente all’autonomia. Le conseguenze di tale situazione dovrebbero portarci a modificare atteggiamenti, competenze professionali, strategie. Ma andiamo con ordine.

Il paradosso, o l’equivoco?, dell’autonomia consiste che l’autonomia sia… autonoma. In realtà l’autonomia è eteronoma. Deve fare i conti con i vicini. Con il contesto, o meglio i contesti. Ipotizziamo, in buona compagnia, che l'intelligenza sia la manifestazione di un insieme di capacità adattative. Come cresce e si alimenta? Con i contributi di coloro che incontra, intenzionalmente qualche volta, casualmente il più delle volte. Una pianta non è intelligente, ma il suo sviluppo è una metafora utile per capire il nostro sviluppo. Una pianta non cresce da sola. Cresce perché le sue radici incontrano la terra, ovvero una composizione magmatica che contiene elementi vitali per la crescita della pianta. Gli elementi vitali sono nella composizione magmatica. Cioè sono impuri. E fa parte dello sviluppo della pianta la capacità di selezionare ciò che le serve. Questo è un punto importante, e, a rischio di una poco elegante ripetizione, vale la pena sottolinearne la sostanza. Che è la seguente: per la nostra crescita non dobbiamo pretendere di incontrare elementi la cui purezza è già data; fa parte della crescita discernere ciò che è utile, separarlo e servirsene metabolizzandolo.

Le reti sociali sono una composizione magmatica. Proprio questa caratteristica è fondamentale per la crescita, anche dell’intelligenza. Pensiamo anche all’intelligenza dei Servizi. Non cresce se non esercita il discernimento e presume di incontrare e servirsi unicamente di elementi la cui purezza è già data (garantita scientificamente). Deve anche “sporcare” gli elementi “puri” che possiede. Non è facile se si ritiene di essere legittimati proprio dalla purezza dei propri strumenti. Se si ha questa convinzione, è inevitabile risultare paralizzati, e quindi non crescere. La paralisi, lo stallo, è dovuto alla necessità di non “sporcare” i propri strumenti, la cui purezza è fondamento legittimante della propria posizione. Come posso utilizzare i miei strumenti senza sporcarli? Li potrò utilizzare a patto che non si sporchino. E quindi unicamente in casi rari, colpevolizzando tutti gli altri.

E’ lo specialismo. Probabilmente è la reazione, uguale e contraria, alla stagione che ha privilegiato la solidarietà alla competenza.

Proponiamo la competenza solidale. Deve lasciare lo spazio alle reti sociali. Che non possono essere un rimedio povero per chi non può permettersi competenze specialistiche. Sono, lo ripetiamo una volta ancora, essenziali proprio per la crescita, culturale e dell’intelligenza. I Servizi devono preoccuparsi attivamente di chi è povero di reti sociali. Attivamente significa non limitarsi a risposte tecniche, ma capire come realizzarle con la partecipazione del contorno sociale, anche stimolandone la nascita e la crescita.

Questo non può essere compiuto delegando ad un ruolo professionale che scarichi gli altri ruoli professionali da questo compito. Deve essere integrato nel progetto fondante di ogni Sevizio. Potrà sembrare strano, ma l’integrazione nel progetto è tanto più possibile quanto sono chiari i profili professionali, al cui interno dovremmo trovare, implementati e implementabili, i profili di competenze. Dal riconoscimento, anche professionale, delle identità nella loro pluralità differenziata, nasce un progetto integrato di un Servizio.

Normatività e pluralità

La pluralità esige un percorso coerente. Per spigarci prendiamo il percorso formativo composto da scuola + università. Spiace dire che, al di là delle dichiarazioni di intenti, è un percorso improntato ad un imprinting normativo, e non pluralista. E questo dalla fonte. Alla sorgente c’è lo scaffolding, ovvero l’impalcatura che permette l’edificazione delle conoscenze. Può esserci uno scaffolding sociale, ovvero plurale, e uno scaffolding normativo. Lo scaffolding normativo è talmente diffuso da essere considerato “naturale” Ed è una logica conseguenza che costituisca una sicurezza emotiva a cui sembriamo disposti “naturalmente”. Mentre lo scaffolding sociale può provocare senso di insicurezza fastidioso. Proviamo a spiegarci la ragione di tutto ciò. L’insegnante che pratichi lo scaffolding sociale – difficilmente lo chiamerà così – costruisce l’impalcatura con gli allievi, e la stessa impalcatura terrà conto della pluralità dei soggetti che la costruiscono. Ma quei soggetti potrebbero vivere nello stesso tempo l’impegno, forse anche appassionante, e il disorientamento, dovuto al fatto che si aspettavano ciò a cui erano abituati e che viene ritenuto naturale (scaffolding normativo).

Nell’area della cura, lo specialista dialogante (scaffolding sociale) può anche disorientare l’utente, che si aspetta uno specialista perentorio e direttivo (scaffolding normativo). Stando così le cose, dovremmo trarne due conclusioni. Che lo scaffolding normativo rassicura e quello sociale disorienta. E che, se vogliamo essere al servizio degli utenti, dobbiamo sforzarci di operare secondo il modello dello scaffolding normativo. Ma queste conclusioni sono svianti. Tengono conto di un consenso superficiale e volatile. Basato sul consumo e non sull’efficacia. E’ un consenso simile a quello che ottengono certi prodotti alimentari di scarso valore, e a volte anche nocivi, rispetto ad altri, meno richiesti anche perché impegnano in una scelta. I primi sono facili, molto visibili, di rapida assunzione, poco impegnativi, e poi sono tanto diffusi… vuoi che tutti  sbaglino?

La norma(tività) si applica con vantaggi gestionali. Nell’insegnamento, gestire la valutazione normativa, basata su un “giusto normale”, accorcia i tempi. La valutazione formativa (plurale) impegna a scoprire i “gusti”.

Se trasferiamo ancora una volta tutto questo nel capo della cura socio educativa e sanitaria, possiamo facilmente comprendere i rischi e i danni della logica normativa. Che è una tentazione, perché apparentemente permette un maggiore controllo della spesa. Ma se volessimo esaminare la qualificazione della spesa, probabilmente emergerebbero amare sorprese.

I Servizi sono a questo bivio. Possono prendere la logica normativa, ritenendola più conveniente e gradita. O possono impegnarsi nella logica della pluralità. Riteniamo che la prima crei molta marginalità e poca innovazione (poca crescita di conoscenze, utilizzando sempre e unicamente ciò che già si conosce o ciò che altri hanno scoperto). Nel primo caso, il Paese si impoverisce. Nel secondo, forse cresce.

Patologia sociale e attribuzione di colpa (in contrasto con l’assunzione di responsabilità)

La marginalità come colpa. O come patologia, da isolare e curare per guarire o cronicizzare.

E’ la confusione, a volte ingenua e a volte fraudolenta, relativa al merito. Alla meritocrazia. Interpretata come facilitazione per chi ha meriti attesi. A chi ha meriti inattesi, forse imprevisti e scomodi, viene riservata una marginalità colpevole. Che viene mascherata, parzialmente, mettendola a riscatto. Cosa vogliamo dire? Ci sono due tipi di riscatto. Il primo esige che la persona a rischio di marginalità diventi eccezionale, un campione, un fenomeno, un santo. Il secondo è legato alla benevolenza e può esigere la drammatizzazione della propria condizione.

Attraverso questi due tipi di  riscatto dalla marginalità si ottiene una selettività che conferma che la marginalità come colpa è giusta. Se poi possiamo ogni tanto leggere o ascoltare che sono stati individuati di falsi invalidi, stabilizziamo le nostre credenze che fanno di chi è marginale una persona che non merita la nostra fiducia ma che deve fare qualcosa di speciale per meritarsela o per meritare la nostra benevolenza.

L’attribuzione di colpa, come la trasformazione in patologia, sono ostacolo e opposizione all’assunzione di responsabilità. E quindi di cambiamento e mobilità sociale. L’assunzione di responsabilità si trasforma in attribuzione di responsabilità come dimostrazione dell’incapacità e quindi della colpa.

Questo è un nodo ingarbugliato, che non crediamo di dipanare in questo contesto, che permette però di segnalarlo. Aggiungendo che a volte l’attribuzione di responsabilità dà luogo a forme di nonnismo. Altre volte genera deleghe improprie, ad associazioni di famigliari, per esempio. Altra cosa è il partenariato. Che esige la formulazione, mediante negoziazione, di obiettivi comuni, lasciando a ciascuno la responsabilità delle scelte intermedie (strumenti, attività, …) che devono essere congruenti rispetto agli obiettivi.

L’automobilista che non legge il contesto… E che non vuole contaminarsi

Vi sono prestazioni formidabili che sono tali perché non badano molto, o anzi: non badano affatto a chi è vicino, al contesto. Sono – come si usa dire – performanti perché autoreferenziali. Incapaci di tener presenti gli altri. Ricordano certi automobilisti che guidano senza farsi guidare dalla strada. Curve e segnali sembrano non esistere. Gli altri automobilisti devono solo essere superati, mettendosi da parte. Crediamo di poter dire che sono pericolosi.

Un Servizio non può trascurare i contesti in cui opera. Deve contaminarsi. La contaminazione è propria dei sistemi complessi. Un Servizio probabilmente si considera sistema complesso. Ma è convinto che il singolo utente è un sistema complesso? E’importante che lo sia per poter vivere una coevoluzione. Diversamente ha la presunzione, sovente sterile, che l’altro evolva mentre lui, quel Servizio, non deve evolvere ma, forse, ristrutturare e tagliare i costi. Che è altra cosa

La nostra Costituzione

Dobbiamo avere come quadro di riferimento la nostra Costituzione. E la Convenzione Internazionale ONU delle persone con disabilità. Dobbiamo rispondere ai bisogni con la logica dell’empowerment (potenziamento delle capacità e della consapevolezza della persona), che permette di educarci alla resilienza (la capacità o il processo di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l’aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare ad un esito negativo). La conoscenza individuale e sociale contiene la necessità di tenere conto dei generi. Il maschile e il  femminile devono stare nelle nostre realtà, non si può fare delle azioni neutre, magari in nome della non autosufficienza.

La realtà è intreccio. “Il villaggio è come un cesto che è stato rotto ed i pezzi sono sparsi. I pezzi sono ancora lì ma nessuno può vederli. Quello che è stato rotto può essere intrecciato di nuovo, lentamente e gradualmente, ma solo da coloro che trascorreranno del tempo vicino alla gente del villaggio, costruendo con loro un rapporto di fiducia. Alla fine le persone del villaggio divengono esse stesse tessitori e portano il compito avanti, sempre più avanti. Il cesto sarà migliore di prima, ma all’inizio deve essere come prima…”  (Meas Nee, 2001). Per realizzare un welfare di prossimità.

 

Indicazioni bibliografiche

Costituzione. La Legge degli Italiani,a cura di M. LODI (2008), Cremona, Casa delle Arti e del Gioco.

M. BUBER (1990), Il cammino dell’uomo, Magnano (Comunità di Bose), Ed Qiqajon.è

P. BARATELLA, E. LITTAMÉ (2009), I diritti delle persone condisabilità. Dalla Convenzione Internazionale ONU alla buone pratiche, Gardolo di Trento, Erickson.

E. MALAGUTI (2005), Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi, Gardolo di Trento, Erickson.

G. AXIA (2005), Elogio della cortesia. L’attenzione per gli altri come forma di intelligenza, Il Mulino, Bologna.

M. NEE (2001), Al di là del cielo, Roma, Ed. Sankara.

E’ da consultare il sito http://www.professionidiaiuto.com/index.html

 


 

Persone non autosufficienti. La Regione Marche rivuole gli Istituti

 

Nella delibera con la quale, nei giorni scorsi, la regione Marche ha definito lo standard di personale nei servizi per la salute mentale, anziani non autosufficienti, persone con demenza e disabili, ha disposto anche che ogni residenza non deve ospitare meno di 20 persone. Si prevede l’accorpamento con altri moduli così che ogni struttura abbia una capacità recettiva non inferiore a 40-60 posti. Si auspica, inoltre, la coesistenza all’interno della stessa struttura di servizi rivolti diverse tipologie di utenti (salute mentale, disabili, anziani).

Si tratta di un vero e proprio colpo di mano rispetto alle indicazioni della normativa regionale, che in particolare nei servizi residenziali per disabilità e salute mentale ha sempre privilegiato la prospettiva inclusiva: piccole residenze a dimensione familiare inserite nei normali contesti abitativi. Piccole residenze che peraltro, con gli standard di personale previsti, diventerebbero dal punto di vista gestionale, insostenibili.

È un brusco ritorno al passato, che cancella gli sforzi di questi ultimi 15 anni, per la creazione di modelli residenziali comunitari ispirati alla piccola dimensione.

Un ritorno alla logica degli istituti, fuori dai normali contesti abitativi, contenitori indifferenziati di bisogni diversi. Peraltro la logica delle grandi dimensioni sembra essere sempre più funzionale alle possibilità di grandi enti, siano essi profit o non profit, con grande capacità di investimento. Si tratta invece di un colpo durissimo alle piccole organizzazioni non profit che fanno del legame con il territorio il loro punto di forza.

Ciò che nelle previsioni regionali sembra lontano da ogni preoccupazione è il tema della qualità di vita delle persone all’interno dei servizi, con un’inaccettabile appiattimento sulle cosiddette economie gestionali. Non si parla più di comunità ma di “moduli o nuclei”, con un acritico assorbimento dell’approccio sanitario. Ritorna in maniera prepotente un approccio custodialistico.

Nella prospettiva assunta dalla regione Marche scompare l’idea che per una persona che non può più vivere nella propria abitazione la comunità diventi la sua nuova casa. Dovrà essere una struttura comunque di passaggio e come tale anonima e depersonalizzata.

La delibera della regione Marche propone un inaccettabile ritorno al passato che occorre   contrastare con forza.

Comitato Associazioni Tutela

Campagna “Trasparenza e diritti”

http://leamarche.blogspot.it/

 

23 luglio 2013

 


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