Gruppo Solidarietà e Auto Mutuo Aiuto: il racconto di un’esperienza In, Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2017. Il bisogno di parola è anche il bisogno di riceverla, è il bisogno di essere ascoltati nella propria umanità. Ci sono familiari, specialmente anziani, che faticano a verbalizzare i bisogni, non sanno spesso nominare le emozioni, faticano a trovare le parole giuste. L’incontro con questi i genitori chiede ai professionisti della cura, ai servizi, alla politica, una manutenzione alle relazioni tra la rete dei soggetti coinvolti Gloria Gagliardini, facilitatrice gruppo AMA, Gruppo Solidarietà In questo articolo raccontiamo l’esperienza del gruppo di auto mutuo aiuto per familiari di persone con disabilità costituito quasi nove anni fa per un intreccio di percorsi in cui il Gruppo Solidarietà ne era stato promotore. Nel 2007, mentre continuavamo il lavoro di tutela e di promozione di politiche inclusive nel territorio, ci si poneva l’interrogativo di come valorizzare tante famiglie che nel contempo si rivolgevano a noi ma che rimanevano poi lontane dalla vita della comunità o che faticavano a fare rete tra di loro. Abbiamo quindi promosso, assieme ad altre associazioni e all’Ambito Territoriale IX di Jesi, un percorso di formazione intitolato “La famiglia nella rete”, rivolto a familiari di persone adulte con disabilità, per focalizzare l’attenzione su questa fase della vita, realizzato da alcuni incontri su aspetti pedagogici, sociali, giuridici ed infine un incontro dedicato alla presentazione di un gruppo Ama. Da Giugno 2008 siamo partiti con 12 genitori interessati alla proposta. Il gruppo Ama ha poi nel tempo preso una sua autonomia e contemporaneamente abbiamo solcato altri sentieri come quello dell’intervista. Metodologia utile e interessante per approfondire alcuni aspetti delle vita delle persone e farne strumento di ricerca, di riflessione, di approfondimento, di formazione per altri come abbiamo poi documentato nel volume che abbiamo realizzato, “Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità” (2014). Raccontare in gruppo il proprio vissuto Dalla nostra esperienza osserviamo che i genitori aderiscono principalmente per un bisogno di confronto con chi vive una situazione familiare simile. L’idea che “gli altri non ci capiscono” è abbastanza forte ed esige quindi uno spazio neutro, non giudicante dove poter esprimere questa “cosa” non compresa, darle un nome, un’identità. A volte sono emozioni, altre volte sono situazioni, fatti contingenti di chi convive con figli con disabilità complesse. Il primo obiettivo non è quindi cambiare qualcosa di sé, ma imparare con altri a convivere - in una modalità più sopportabile - con la stessa quotidianità e provare ad accettare ciò che in natura è un processo naturale: la sana separazione tra genitori e figli nell’età matura, in un processo di vita spesso inverso (dove la separazione non avviene o se avviene per cause di morte di un caregiver). Processi familiari accompagnati da sentimenti carichi di impotenza, in cui l’esistenza sembra un oscillare continuo tra resistere e arrendersi ai fatti della vita. É difficile dare un’interpretazione del nostro gruppo Ama; in questi anni ha visto mutare tanti passaggi di vita, di storie. Storie che non si possono scindere dal contesto in cui vivono: saper trovare il proprio spazio di persona, riappropriarsi della propria storia personale è inevitabilmente un processo che si intreccia con la storia del proprio figlio. Nell’atto narrativo, spesso, “io” e “lui” è identificato con “noi”, si fatica a parlare di sé senza parlare anche del proprio figlio, è un gioco di equilibri, piccoli movimenti dell’uno pesano sull’altro; continuare a trovare un appoggio è la sfida. Questo è il vissuto che portano, da qui bisogna partire. Sta ai facilitatori di comunicazione, cogliere nel “noi” le sfumature, i dettagli, trasformare la frase e riproporla affinché vi si porti consapevolezza. Il gruppo diventa un grande catalizzatore di attenzione e uno specchio tra pari, in cui ci si corregge insieme. Il genitore che trasforma la frase detta da un altro in domanda per sé , chiede chiarimento, condivide un fatto narrato da un altro svolge una funzione metacognitiva importantissima. Questo gioco di specchi, dove nessuno prevale ma tutti si offrono, diventa uno spazio di consapevolezza in cui si elabora il proprio vissuto e quindi il proprio sapere. L’Auto Mutuo Aiuto, è definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità”. Chi scrive era già una volontaria del Gruppo Solidarietà, speravamo che proporre, noi come associazione, un gruppo, avrebbe aiutato i genitori ad emergere dalla loro situazione di solitudine, che spesso è isolamento non solo dalla propria comunità territoriale ma anche dal rapporto con i servizi. Questo punto lo tratterrò in seguito, è un elemento importantissimo a mio avviso nell’esperienza dei gruppi per familiari. Spesso le discussioni, i confronti, il groviglio delle emozioni si snoda su questo tema, per questo ritengo necessario che il gruppo sia condotto da persone esterne alle dinamiche dei servizi che li hanno in carico, persone disinteressate (nel senso puro del termine) alle dinamiche che si giocano tra servizi e utenti. Questo, però, non significa che il gruppo Ama possa essere confuso con un gruppo di pressione politica, di autotutela, di rivendicazione. Per noi è stato sempre chiaro tenere distinti questi due aspetti, aspetti che nella vita di un familiare/caregiver sono intrecciati nel proprio vissuto quotidiano. Al nostro gruppo, quando emergono temi legati al rispetto dei propri diritti o alle problematiche che possono insorgere con i servizi, si portano alla luce e ci si confronta. È un primo momento in cui il problema riesce ad emergere in uno spazio collettivo, poi, se questo ha bisogno di un intervento e di supporto specifico, si rimanda allo spazio associativo dove i genitori sanno di trovare consulenza, ascolto e analisi del problema. Il gruppo in pratica Strutturalmente il nostro gruppo ha fin dall’inizio scelto di essere “aperto[1]”, non ha durata di tempo prefissata e ammette sempre l’ingresso di nuovi membri nel corso del tempo. Dobbiamo però constatare che in questi anni, nonostante piccoli cambiamenti di persone, il gruppo non si è mai rinnovato completamente, il nucleo stabile è sempre lo stesso. Questo gruppo ha delle caratteristiche ben precise: la prima è quella di avere tutti figli adulti (sopra i 30 anni di età) e la maggior di essi con disabilità complesse che frequentano i centri diurni[2] del territorio. L’eccezione è una mamma con figlia con disabilità intellettiva lieve e che usufruisce di un inserimento lavorativo; poi è presente un caro amico del gruppo con disabilità motoria. I membri sono 10, tutti di età compresa tra i 60 e i 75 anni. Questo dato anagrafico è importante, forse è davvero il collante di tanti vissuti, perché tutti vivono la fase matura dell’esistenza, in tutti è vivo il pensiero del proprio invecchiamento, della maturità del proprio figlio, dell’assistenza o della morte dei propri genitori o parenti, del cosiddetto “dopo di noi”. Geograficamente, il gruppo è costituito da persone provenienti da Comuni dell’Ambito Territoriale Sociale IX, che hanno affidato la gestione dei servizi sociali all’Asp (Azienda Servizi alla persona)[3]. La presa in carico dei figli è di competenza dell’Unità Multidiscplinare Età Adulta (Umea), all’interno dei servizi distrettuali dell’ Asur Area Vasta 2. Ultimo aspetto, è la conoscenza con la nostra associazione. Di queste 10 persone, soltanto 1 non era conosciuta da noi, per le altre, il Gruppo Solidarietà è sempre stato un riferimento. Come individuare allora ciò che siamo? Forse meglio dire ciò che non siamo. Sicuramente non siamo un gruppo terapeutico, non c’è alcuna conduzione in questo senso; meglio parlare di facilitazione in termini comunicativi, organizzativi, ambientali e di mediazione. Il senso di appartenenza che i membri del gruppo hanno nel tempo introiettato, è di per sé un fattore terapeutico, come lo è ogni forma di struttura gruppale dove le relazioni si fanno intime e stabili. Il gruppo diventa strumento di rete sociale e affettiva. Mi ritrovo pienamente con Alain Goussot[4]: “Lo spazio narrativo è quello del gruppo ed è uno spazio in cui si svolge una cooperazione comunicativa che permette anche lo scambio di punti di vista diversi, ma dove è possibile creare quelle mediazioni che favoriscono la riflessione collettiva e la presa di coscienza. La condizione è quella di costruire un rapporto autentico, umano, un rapporto basato sull’ascolto ma anche sulla partecipazione di ciascuno in un processo di riconoscimento di ognuno come portatore di esperienza insieme unica e simile a quella degli altri.” Si offre anzitutto uno spazio d’accoglienza e l’opportunità di mettersi in dialogo, facendo attenzione che questo sia “un percorso di incontro all’interno del quale la persona percepisce la comune umanità dell’altro”[5] Il clima, la qualità delle relazioni, il senso di benessere che si instaura è un punto centrale. Nella nostra esperienza il clima è spesso gioioso, non significa che si neghi il sentimento della tristezza, l’esplosione di una rabbia o di un pianto, ma lo sfondo relazionale in cui avviene è di reciproca gioia, la gioia di incontrarsi ogni volta indipendentemente dai fatti che accadono. Questa gioia, credo sia il motore che permette ancora di trovarsi. In questi anni, abbiamo approfondito alcune di queste storie, utilizzando diversi strumenti narrativi, non solo orali, ma anche scritti. Dopo tanti anni, c’è il rischio che un gruppo si canalizzi su alcuni temi ricorrenti con la fatica di esplorare altre sfere della vita. Una metodologia usata è stata anche quella di parlare al gruppo del proprio essere stati figli, e di quanto il vissuto di figlio emerga nel ruolo di padre e madre. Fare salti di memoria autobiografica permette di rivisitare la propria storia in modo nuovo, inaspettato. Sostenuti anche dalla condivisione di foto, abbiamo indagato l’infanzia, la giovinezza, i passaggi cruciali della vita matura, la nascita dei figli, la comunicazione della diagnosi. Questo parlare a ritroso è importantissimo per conoscersi in modo approfondito, intimo. In questo senso si “restituisce storia” e si “dà storia” anche alla persona con disabilità, si avvia un processo di separazione tra sé e il proprio figlio, ci si allontana per un attimo dalle contingenze e si permette di avere uno sguardo lungo alla vita, perché, quando si è affaticati è comune esperienza dirigere lo sguardo al pezzo che non funziona, al problema, a ciò che non va. La relazione con la persona con disabilità può, quindi, giocarsi solo su questo, anche nel rapporto familiare. Carlo Lepri[6] ci invita a saper vedere la persona nella sua globalità in quattro attenzioni. L’attenzione a “dare storia”: cioè, vederla dentro ad un percorso, “dare contesto: far risaltare la persona dentro a uno sfondo, “dare relazioni”: inserire la persona dentro a dei legami, dei linguaggi, rappresentazioni, “dare senso”: inserirla in una logica di senso, di significati. Uno sguardo antropologico che contempli queste azioni, non è uno sguardo neutro, ma diventa uno sguardo curioso. Per un anno, in occasione di traslochi di casa di due membri del gruppo, abbiamo anche analizzato il tema dell’abitare. Cosa significa abitare, cos’è la casa, come ci stiamo a casa e per fare questo gli incontri si sono svolti, di volta in volta, a casa di ciascuno, ognuno si è reso al contempo ospite per l’altro. Parlare di sé a casa propria è stata un’esperienza singolare, come entrare nel vivo di ciascuna situazione, entrare nell’intimo, toccarlo, concretizzare le parole dette in sede, capire le problematiche legate all’accessibilità di una casa, a come si attrezza un bagno o una camera per le esigenze di una persona disabile motoria che invecchia e prende casa accanto a quella di una sorella, o capire come si vive con crisi epilettiche, vedere il letto di un padre che dorme ormai da anni accanto a un figlio, osservare le foto degli anni giovanili, vedere come nelle cameretta di un figlio ci siano ancora giochi infantili, lavori di carta stropicciati da qualche stereotipia lasciati sul tavolo, o una cameretta ricca di foto di una persona ormai in comunità. Il gruppo prende forma nel 2008, non tutti si conoscevano. In cerchio, un primo spazio di accoglienza nella sede del Gruppo Solidarietà. Ci siamo presentati e abbiamo stabilito le necessarie regole della comunicazione: parlare uno alla volta passando un pennarello al successore, parlare di sé e non di chi è assente, ascoltare chi parla, non giudicare, sentirsi liberi di esprimersi, trovarsi una volta ogni due settimane. Una cosa che emerse subito fu quella di trovare uno spazio per sé stessi sollevati dalla cura del figlio. Per un paio di anni abbiamo, quindi, affiancato a queste famiglie alcuni giovani volontari che andavano a casa, costruendo così un amicizia con tutto il nucleo familiare e con la persona disabile, dedicandogli del tempo libero. Potersi svincolare dalla cura costante verso il proprio figlio è sempre stata una grande necessità. Nella facilitazione del gruppo non si è mai seguito un metodo specifico, spesso dall’ascolto dei fatti, dei vissuti è emerso chiaramente come continuare, e quando non era chiaro, quando ci siamo trovati in situazione di stasi, la meta-comunicazione di quello che ci stava accadendo ha sempre portato proposte nuove. È il gruppo in completa autonomia a decidere quando vedersi (attualmente una volta al mese) e di cosa parlare, il facilitatore può proporre un tema, può offrire spunti di lettura, può osare domande quando legge nel gruppo una fatica ad uscire da una dinamica comunicativa chiusa, quando non riesce ad emergere qualcosa che richiede più attenzione. Si inizia quasi sempre con la domanda “come stiamo?”, che serve da incipit per poi parlare liberamente. Sono stati i genitori a proporre di cambiare metodologia quando il parlare a giro era diventato troppo costrittivo, così ora che il clima è ormai intimo, ognuno prende parola quando vuole e sulla base delle necessità di tempo. Per alcuni genitori non era facile ascoltare in silenzio l’altro senza contemporaneamente fare delle chiacchiere sottovoce, rispettarne i tempi, i silenzi, differenziare un dialogo superficiale da un altro più profondo. Consapevoli noi che i bisogni sono duplici: quello sano, leggero, facile, delle battute scherzose in cui ci si permette anche tanta autoironia, e quello più intimo, più profondo, più impegnato che richiede un’altra attenzione a se stessi e all’altro che va comunque sempre accompagnato, sostenuto, riportato alla luce. C’è tutto un lavoro comunicativo da apprendere. Tra solitudini e intrecci di cura In questi anni abbiamo sondato tanti terreni, siamo entrati dentro a tanti temi, alcuni tornano in modo costante, altri ci sfuggono ancora, tutti sono legati chiaramente alle vicende personali dei membri del gruppo e dall’avanzare delle età dei genitori e dei figli. Emergono alcuni bisogni: anzitutto il maggiore tempo per se stessi e il non essere sempre dentro a una quotidianità fatta di impegni per la cura dei propri cari, che si traduce in una colpevolizzazione di non fare abbastanza o di non farcela più come prima. Una cosa rilevante è che, dopo tanti anni, ci si sente ancora soli. Soli ad affrontare assieme al proprio figlio la vita e si ha bisogno di relazioni esterne alla famiglia, ma che al contempo ne diano sicurezza, che non la sconvolgano troppo. Riporto qui uno stralcio dal diario di bordo del 2009. Due genitori dicono: “Sono 13 anni che abitiamo nel palazzo e mai nessun vicino è venuto a giocare con F., sono tutti molti freddi, distaccati” A., un papà, ribatte: “Pensate, cosa saremmo stati noi senza questi figli? Io non credo che la gente sia cattiva, solo non conosce e quindi ha paura. Sta a noi aiutarli. Una volta noi in classe non avevamo disabili, oggi sì, e questa è una fortuna perché fin da piccoli imparano che c’è la diversità. Non dobbiamo farcene una colpa, non è colpa mia se mio figlio è epilettico” S.,una mamma: “A volte la rabbia verso gli altri nasce perché dopo tanti anni non abbiamo ancora compreso la causa della disabilità di nostro figlio, e questo ci rimane dentro … Mia figlia ha quasi 30 anni, non credo vedrò miglioramenti, forse se mi fossi concentrata di più quando era piccola sulle sue autonomie … ma alla Lega del Filo d’oro mi avevano dato un programma di esercizi che mi sembrava esagerato per lei. Forse ho sbagliato” A., un papà: “Ma noi siamo genitori, non operatori, ci possiamo anche sbagliare, anche questo non è una colpa”. L’arcipelago dei sentimenti e delle emozioni che fanno da substrato ai discorsi non sempre è consapevole. Spesso, ci si deve fermare sulle frasi per coscientizzarle. Si impara insieme a nominare le emozioni. Così come non si è abituati a focalizzare il vissuto emotivo di cosa significa separasi dal proprio figlio. Tutti ne sentono la necessità, dovuta anche all’invecchiare, ma insieme si porta alla luce quali sono gli elementi di resistenza, quali emozioni ci sono dietro, quali mostri interiori compaiono pensando di lasciare un figlio. Ragione e sentimento si intrecciano di continuo e solo di fronte alle esperienze limite si impara a coglierne la differenza[7]. Tre anni fa, venne al gruppo per la prima volta una signora M., per la maggior parte di noi non conosciuta prima, per lei era il primo giorno dopo 44 anni che più tardi non avrebbe pranzato con la figlia come era solito fare, perché aveva deciso di prolungarle l’orario di permanenza al centro diurno. Per la prima volta questa donna maturava una piccola separazione dalla figlia, il tono della voce era basso e carico di fatica. La scelta era stata sofferta, ma era inevitabile, perché da lì a poco, questa donna, si sarebbe sottoposta ad un intervento chirurgico. Alla triste testimonianza di quella signora, una mamma rispose con assoluta leggerezza e sorriso: “Perché non la porti in comunità?” E la signora rispose: “Non ce la faccio! Piuttosto chiedo aiuto a mamma che ha 95 anni” Un piccolo dialogo tra madri, che permette a una madre preoccupata di sentirsi dire da un’altra, con assoluta semplicità, che la figlia poteva anche essere presa in carico da altri, anche fuori dalle mura domestiche, come anni prima fece lei. Quella mamma aveva esperienza di una separazione positiva, in cui ci si può fidare dei servizi. Anni prima avevamo assistito a tutto il processo di separazione di questa madre dalla propria figlia, un processo travagliato, che è poi maturato nel trasferimento permanente in una comunità residenziale per disabili del territorio. In questi anni, S. ha compiuto tanti passaggi di vita: una figlia in comunità, l’assistenza e la cura per il padre malato e poi deceduto e due anni dopo stesso iter con la madre. L’esperienza di S. ha portato gradualmente ogni membro del gruppo a riflettere su questa dimensione: preparare ora che si è in vita la separazione da un figlio, non aspettare che tutto avvenga in fretta e che sia un trauma, ma darsi fiducia e darla anche a questi figli perché si adattino ai cambiamenti con gradualità. Negli anni quasi tutti hanno poi scelto di usufruire di un servizio di “sollievo[8]”, alcuni weekend stabiliti con i servizi in cui i figli trascorrono dei giorni in comunità residenziale. Quando si parla di separazione salta alla mente subito la paura della morte, come scrive Mario Paolini: “non si pensa mai alla comunità residenziale perché è pensare alla propria morte, a quel che arriva dopo, dopo di me; anche se si fa tutto razionalmente bene non si può far finta che il costo emotivo sia poco. L’altra comunità, quella che accompagna tutte le fasi della vita, quella a cui si desidera appartenere, resta un sogno irraggiungibile a volte”[9]. P., un papà di 73 anni, dice: “Nostro figlio sta invecchiando, lo vedo che perde i capelli, quella macchia sul viso che non so come potrà evolvere, ho sempre il pensiero che possa morire … E’ brutto dirlo, ma io spero che muoia prima di me, così morirò in pace senza il pensiero di chi se ne prenderà cura. Lui è come un bambino piccolo ha bisogno di tutto … mi domando: ma un operatore può avere lo stesso amore che gli ho dato io? Penso di no.” In questa riflessione di padre, c’è tutto. C’è la paura della morte, dell’invecchiamento, il tema della fiducia, a chi riporla, la domanda se la vita senza l’amore che li lega può comunque trovare un senso. Sua moglie, interviene: “All’età di 6 mesi ci avevano detto che non avrebbe avuto una vita lunga. Noi abbiamo vissuto sempre con la paura che questo unico figlio potesse morire, forse è per questo che io non mi sono mai attaccata tanto a lui, come per difendermi da questo dolore, mentre il padre è ossessivo”. Questi genitori, di più di 70 anni, con un figlio di quasi 40, non verbale e tratti di autismo, affrontano da tempo questo passaggio di vita. Nel gruppo hanno trovato persone con cui confrontarsi, da cui prendere fiducia per il loro percorso. Vivere la dimensione di genitorialità di persone adulte, implica contemporaneamente vivere altri processi e legami familiari. R[10]., una mamma di 62 anni: “Sono stanca, tutti i giorni vado a trovare mamma alla casa di risposo, poi vado a prendere i nipoti a scuola (i figli dell’altro figlio) e alle 16,00 torna anche G. dal centro diurno. Mi devo sempre occupare di tutti, per me ho mantenuto la palestra una volta a settimana. Per stare dietro ai nostri figli, bisogna dimenticare gli altri …” Questa donna è moglie, mamma, nonna di 3 nipoti, e ancora figlia di una madre non autosufficiente. Il carico di cura per lei è alto. E’ chiaro che in situazioni come queste, la vulnerabilità del sistema familiare è alta, è una questione di piccoli equilibri che possono da un momento all’altro saltare. Emerge il bisogno di prendersi cura di sé, oltre che degli altri. Un’altra mamma di 65 anni continua: “Ho da fare con mamma che non sta bene, ha 98 anni, ora ha il sondino, a noi figli non ci riconosce più, pure B. ora è un periodo che non vuole fare nulla, è pesante da gestire. Ma non posso caricare la sua gestione sul fratello, non me la sento”. La cura dei legami familiari, implica anche attenzione alle dinamiche che si instaurano. È giusto chiedere aiuto ad un altro figlio? Quanto lo si deve coinvolgere e come? Domande che non trovano nel nostro gruppo, risposte omogenee, tra chi sostiene che agli altri figli bisogna evitare responsabilità future, chi invece da sempre li coinvolge nel progetto di vita del fratello.“La dimensione della cura è un elemento costante nella relazione fraterna lungo tutto l’arco della vita, e ancora di più durante la maturità: intorno ad essa e alla necessità di un fratello fragile occorre strutturare un progetto che concili le esigenze di tutti i membri del nucleo con il diritto della persona disabile a una vita dignitosa e soddisfacente”[11] Per questo, la presa in carico della persona con disabilità e l’attenzione al nucleo familiare sono decisivi per il loro progetto di vita. Scrive bene Rozzi: “Affrontare il tema della cura di sé nell’ambito dei caregiving, non può prescindere dal far considerare alcuni aspetti ricorrenti nei vissuti della cura, quali ad esempio la sperimentazione di una dolorosa contraddittorietà fra i propri bisogni, emozioni, valori e quelli del proprio familiare, il vissuto di un tempo di cura senza fine, e di mancanza di spazi per sé. A questi sentimenti si accompagnano frequentemente stati emotivi di allarme e forte bisogno di controllo nei confronti di tutto il “sistema curante”. Di fronte a questo […] si possono aprire due strade per il caregiver. La prima riguarda la ricerca di strategie di autotutela […] la seconda rimanda invece al concetto di “vulnerabilità da cura”[12]. Il bisogno di parola Mi è rimasto sempre impresso nella mente uno scritto del celebre psicologo Lev Vygotskij[13]: “Dopo aver interrogato la madre, la lasciammo andare, ci consultammo fra noi e infine la richiamammo per comunicarle i risultati del nostro esame. “Il suo bambino - le disse lo psichiatra - è epilettoide”. La madre, in ansia, si mise ad ascoltare attentamente. “Che cosa significa tutto ciò?” chiese. “Significa che il bambino è iroso, eccitabile, se va in collera non capisce più nulla e può divenire pericoloso per chi lo circonda” Delusa, la madre obiettò: “Ma tutto questo ve l’ho raccontato io stessa!” Vygoskij continua: “Questo caso per me è memorabile; esso mi ha per la prima volta costretto a riflettere in tutta serietà su ciò che i genitori ricevono dalla diagnosi e dalle risposte dei specialisti […] La madre non considerava il figlio malato, non cercava una diagnosi medica, bensì pedologica […] Non capiva come doveva comportarsi con il bambino, come reagire a tutti i suoi scatti di rabbia, come sfuggire a questi, come rendergli accessibile la frequenza scolastica. A tutti questi problemi la diagnosi non dava nessuna risposta”. Sono parole degli inizi del ‘900, ma sono parole come pietre, attuali. La famiglia non ha bisogno di ulteriori diagnosi, di tecnicismi, di separazioni, ma di atti, parole, gesti, servizi che la includono. Il processo culturale della disabilità è oggi mutato completamente, la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, in Italia legge dal 2009, ha portato all’affermazione di una concezione sociale e antropologica della disabilità, non più medica. La disabilità non è un fatto medico, da curare, è un fatto sociale, di responsabilità collettiva e come tale va trattato. Questo cambia radicalmente anche il tema della famiglia, non più solo oggetto di cure, di servizi, di terapie, ma soggetto attivo alla costruzione di una cittadinanza inclusiva. Recentemente al gruppo, alcuni genitori sono esplosi in rabbia per non veder rispettati alcuni loro diritti. Terminato l’incontro mi balzò alla mente questa frase di Simone Weil: “c’è vera sventura solo quando l’avvenimento che ha afferrato una vita l’ha sradicata, l’ha colpita direttamente o indirettamente in tutti i suoi aspetti: sociale, psicologico, fisico. Il fattore sociale è essenziale. Non c’è vera sventura là dove non si verifichi, in qualsiasi forma, una decadenza sociale o l’apprensione a una simile decadenza[14]”. Trovo questa frase così azzeccata, quella che la Weil chiama sventura, è tale quando è esclusione sociale, quando ferisce la persona nella sua dignità togliendole la capacità di un agire sociale. Per esempio: M., madre di 65 anni, vive la rabbia e la frustrazione di non essere ascoltata dalla propria amministrazione comunale. Alla sua richiesta di residenzialità temporanea, il Comune ha risposto, per motivi economici, negativamente rifiutandosi di assumere la quota sociale di competenza, questa madre non ha più avuto possibilità di interlocuzione con l’Istituzione. La fatica della quotidianità si carica della frustrazione di non sentirsi accolta e sostenuta dal proprio comune di appartenenza. M. ripete spesso, “ci trattano come se non esistessimo!” Questa donna continua a lamentarsi e non trova risposte concrete. Quali altre risorse ha? Quali strumenti? Domande di difficile risposta. Senza un nucleo sociale che sostiene queste famiglie rimangono sole con le loro rabbie. La parola è ciò che ci lega agli altri, ciò che ci fa esistere, ciò che ci rende umani, il linguaggio è un fatto sociale. “Non c’è condizione umana senza dialogo.”[15] Il bisogno di parola è anche il bisogno di riceverla, è il bisogno di essere ascoltati nella propria umanità. Ci sono familiari, specialmente anziani, che faticano a verbalizzare i bisogni, non sanno spesso nominare le emozioni, faticano a trovare le parole giuste, spesso il loro discorso è contraddistinto dal dialetto del luogo dove sono nati, è un linguaggio povero e caricato da sentimenti viscerali. L’incontro con questi i genitori chiede ai professionisti della cura, ai servizi, alla politica, una manutenzione alle relazioni tra la rete dei soggetti coinvolti. Il lavoro autobiografico che ha accompagnato un pezzo del percorso di questo gruppo Ama è stato importante perché ci ha permesso di capire da che punto iniziano le storie di vita. Contestualizzarle è necessario per capirne i bisogni attuali. Ci sono genitori che vivono ancora il sentimento della vergogna, della colpa che inevitabilmente proiettano poi sul mondo. La storia ci insegna che siamo passati dalla catastrofica figura delle “madri frigorifero” e quindi dall’imputare colpa alla madre per il figlio “diverso” con conseguente medicalizzazione: madre malata, figlio malato, nucleo familiare da curare; a quello della famiglia iperprotettiva, che non aiuta il figlio a progredire, a maturare, costringendolo alla figura dell’eterno bambino da accudire, quindi con un risvolto prettamente assistenzialistico. Quanta colpa ha prodotto nelle madri e con quanto senso di inadeguatezza molte famiglie si accostano a chiedere aiuto ai servizi! Dietro ai discorsi di alcuni familiari c’è un mondo emotivo così aggrovigliato che ci vuole un orecchio attento e un occhio non giudicante per coglierlo nella sua profondità. I Disability Studies[16], in particolare nel proporre le loro tesi sul processo di inclusione, individuano la famiglia non in una relazione duale genitori-figli (problema), ma come soggetto di pensiero attivo del processo del sistema di inclusione. Se, come scrive Medeghini, “l’attenzione è posta sulla gestione del problema, per il quale si privilegia un approccio individualista senza leggere e interpretare i problemi alla luce delle possibilità, opportunità e qualità dei sistemi relazionali sociali […] si costringe la persona con disabilità ad avere l’unico riferimento nella famiglia e quest’ultima prevalentemente nei servizi: l’esito è un possibile isolamento che coinvolge genitori e figli con disabilità, esponendoli così al rischio di esclusione. Nello sfondo inclusivo, il riferimento alla famiglia viene rivisto e riproposto come uno dei nodi della rete sociale: non isola questo microsistema da altri, ma lo pensa nelle diverse relazioni a tal punto da proporre un potenziamento sociale di queste ultime. […] Tale visione richiede alle politiche e alla progettazione di modificare l’approccio fino ad ora utilizzato, investendo sulle relazioni di comunità[17]” In questo senso, l’auto mutuo aiuto diventa uno strumento collettivo, comunitario, uno spazio in cui ricercare insieme, liberare energie che non si pensavano avere, mantenere collegamenti, relazioni, educare la parola e liberarla. Freire diceva “quanto più ci educhiamo insieme, tanto più continuiamo a ricercare”[18]e ricercare insieme è dare senso, significato alla vita anche nelle situazioni più complesse. BIBLIOGRAFIA Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci Faber, Roma, 2004 Borgna E., Noi siamo colloquio, Feltrinelli, Milano, 2009 Caldin R. (a cura di), Da genitori a genitori, Erickson, Trento, 2015 Farinella A., Siblings, Erickson, Trento, 2015 Freire P., La pedagogia degli oppressi, EGA, Bologna, 2002 Goussot A., Autismo e competenze dei genitori, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2015 Iori V. (a cura di), Il sapere dei sentimenti, Franco Angeli, Milano, 2009 Lepri C., Viaggiatori inattesi, Franco Angeli, Milano, 2011 Medeghini R. (a cura di), Norma e normalità nei disability studies, Erickson, Trento, 2015 Medeghini R., “L’inclusione chiede un cambiamento di sistema”, Appunti sulle politiche sociali, 2, 2016 Paolini M., Il centro diurno per persone con disabilità intellettiva. Servizio o struttura?, Appunti sulle politiche sociali, 4, 2015 Ragaini F., “Fare advocacy nel welfare in Italia. L’esperienza del Gruppo Solidarietà”, Welfare oggi, 4, 2011 Ragaini F., “Volontariato e politiche sociali nell’esperienza del Gruppo Solidarietà”, Appunti sulle politiche sociali, 2, 2010 Rossetti R., Giorgio è gioia e peso, Appunti sulle politiche sociali, 3, 2014 Rozzi G., “Aver cura di sé e autotutela”, in Taccani P., Giorgetti M. (a cura di), Lavoro di cura e auto mutuo aiuto, Franco Angeli, Milano, 2010 Vygotskij L.S, Fondamenti di difettologia, Bulzoni Editore, Roma, 1986 Weil S., Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008 [1] Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci Faber, Roma, 2004. [2] I Centri diurni socio-educativi-riabilitativi (C.S.E.R) sono un servizio territoriale a ciclo diurno rivolta a soggetti in condizioni di disabilità, con notevole compromissione delle autonomie funzionali, che hanno adempiuto l'obbligo scolastico e per i quali non è prevedibile, nel breve periodo, un percorso di inserimento lavorativo o formativo. [3] Azienda Pubblica Servizi alla Persona Ambito 9. L’azienda gestisce, su delega dei Comuni, interventi e servizi socio-assistenziali e socio-sanitarie. [4] Goussot A., Autismo e competenze dei genitori, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2015. [5] Caldin R. (a cura di), Da genitori a genitori, Erickson, Trento, 2015. [6] Lepri C., Viaggiatori inattesi, Franco Angeli, Milano, 2011. [7] Iori V. (a cura di), Il sapere dei sentimenti, Franco Angeli, Milano, 2009. [8] Si tratta di un servizio di residenzialità temporanea, chiamato di “sollievo” allo scopo di dare alle famiglie la possibilità di alcuni fine settimana di sollievo dalla cura del proprio familiare. La residenzialità per persone con disabilità nella regione Marche, trova tra le tipologia di offerta, la Comunità Socio-Educativa-Riabilitativa (Co.S.E.R): una struttura a carattere residenziale e comunitario rivolta a persone maggiorenni in condizioni di disabilità, con nulla o limitata autonomia non richiedenti interventi sanitari continuativi, temporaneamente o permanentemente prive di sostegno familiare o per le quali la permanenza nel nucleo familiare sia valutata temporaneamente o definitivamente impossibile o contrastante con il progetto individuale. [9] Paolini M., Il centro diurno per persone con disabilità intellettiva. Servizio o struttura?, Appunti sulle politiche sociali, 4, 2015. [10] La storia di questa mamma è stata pubblicata: Rossetti R., Giorgio è gioia e peso, Appunti sulle politiche sociali, 3, 2014. [11] Farinella A., Siblings, Erickson, Trento, 2015. [12] Rozzi G., “Aver cura di sé e autotutela”, in Taccani P., Giorgetti M. (a cura di), Lavoro di cura e auto mutuo aiuto, Franco Angeli, Milano, 2010. [13] Vygotskij L.S, Fondamenti di difettologia, Bulzoni Editore, Roma, 1986. [14] Weil S., Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008. [15] Borgna E., Noi siamo colloquio, Feltrinelli, Milano, 2009. [16] Medeghini R. (a cura di), Norma e normalità nei disability studies, Erickson, Trento, 2015. [17] Medeghini R., “L’inclusione chiede un cambiamento di sistema”, Appunti sulle politiche sociali, 2, 2016. [18] Freire P., La pedagogia degli oppressi, EGA, Bologna, 2002.