Data di pubblicazione: 25/06/2019
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I servizi per le persone con disabilità come palestre di vita

In "Appunti sulle politiche sociali", n.  4/2017

Coltivare nuove immagini e nuovi riferimenti per accompagnare il cambiamento nei servizi[1]Cosa significa “palestre di vita”? Significa luoghi all’interno dei quali le persone possano  allenarsi ad abitare il proprio territorio di appartenenza per poterlo vivere il più compiutamente possibile, così come fanno tutte le altre persone che vi trascorrono la propria vita, Maurizio Colleoni, Referente scientifico del net work “Immaginabili Risorse [2]

La questione di fondo: le persone con disabilità diventano persone

Il problema di fondo che vorrei affrontare con questo contributo riguarda la “conquista” della dimensione di “persona” da parte delle persone con disabilità (sancito dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità) e le conseguenze che questa evoluzione comporta per l’agire quotidiano dei Servizi.[3] 

Ma perché è così importante questo cambio lessicale? 

Perché , nelle logiche di fondo che orientano l’agire dei Servizi e degli Operatori le persone con disabilità sono state (e sono tutt’ora, in molti casi) prese in considerazione come “utenti”.

E perché è preferibile parlare di “persone” e non di “utenti”? Per due ragioni, almeno.

La prima riguarda ciò che si mette a fuoco quando si utilizzano questi due termini: la categoria di utente non ha nulla di male in sé, ma non riesce a rappresentare la complessità, la densità, la poliedricità, la mutevolezza, che invece sono caratteristiche della categoria di persona, anche quando sono presenti delle disabilità.  

Tutti noi siamo utenti, inevitabilmente, qualche volta nella nostra vita: quando ci rivolgiamo all’anagrafe del nostro Comune, quando siamo dovuti andare in ospedale, e così via.

Dopo di che torniamo ad essere persone. Cioè qualcosa di più ampio e variegato .

C’è il rischio, cioè, che si determinino delle operazioni di tipo riduzionistico, che riducono cioè la persona al suo limite, e mettono a fuoco prevalentemente quello, orientando l’azione su deficit e mancanze da superare, più che su identità da promuovere.

La seconda riguarda il tipo di relazione chi si instaura: è possibile infatti che trattare le persone (solo) come utenti alimenti delle relazioni rigide e dissimetriche tra portatori di bisogno (da un lato)  e portatori di risposte (da un altro).

Anche qui non c’è nulla di male: tutte le relazioni di aiuto sono dissimmetriche.

Il problema è la fissità, la rigidità, la costruzione di una relazione tendenzialmente assoggettante, che genera una dinamica segnata dallo “schiacciamento” della persona con disabilità (e della sua famiglia) in una posizione prevalentemente ricettiva, dipendente, sottomessa.

E che, spesso, determina l’instaurarsi da parte dei familiari di una dinamica di delega e rivendicazioni ben nota a chi opera dentro e fuori dai servizi .   

La gestione della dimensione “persona”

Detto questo, provo a fare un passo avanti e ad elaborare qualche pensiero attorno a cosa significhi trattare le persone con disabilità come persone vere e proprie , cioè cosa significhi “de-utentizzarle”. 

Mi pare ci siano tre questioni di un certo peso da considerare.

Innanzitutto mi pare necessario lavorare sulla espansione delle possibilità di autodeterminazione delle persone con disabilità, cioè darsi da fare attorno alla costruzione delle condizioni che rendano possibile effettivamente una presa di parola e di decisione attorno ai loro tragitti esistenziali.

Condizioni che saranno diverse a seconda delle potenzialità e delle caratteristiche delle diverse persone.

Ma che in ogni caso avranno come elemento trasversale il sostegno ad una relazione attiva e partecipe, per quanto possibile, con la vita e l’esistente che circonda ognuno di noi.

È una questione che ha (almeno) due versanti.

Uno riguarda l’espressione delle istanze soggettive delle diverse persone e le capacità di ascolto, di lettura e di interpretazione che vengono messe in campo da chi le circonda, in primis dai Servizi.

L’altra è la capacità della persona con disabilità di orientarsi nella realtà e di trovare/costruire e regolare nel tempo un equilibrio soddisfacente tra desideri e risorse per concretizzarli, e, di nuovo, il lavoro che si può fare per irrobustire questa capacità.     

In secondo luogo mi sembra necessario incrementare le possibilità di accesso ad una condizione e ad una vita adulte.  Cosa significa condizione adulta? In termini molto schematici vuol dire: rispetto della soggettività di ciascuno; incremento delle capacità di organizzare una propria personale quotidianità; consapevolezza dei legami e delle proprie responsabilità in ordine ad altre persone.

Sono questioni impegnative e sfidanti? Certamente.

Non tutte le persone possono accedere a livelli di “adultità” significativi? Sicuramente.

Ma è altrettanto sicuro che lavorare sull’adultità possibile nella disabilità significa restituire dignità esistenziale alle esperienze quotidiane: anche solo entrare in contatto con la soggettività di tante persone con disabilità sarebbe un bel risultato.

Per non parlare, poi, della possibilità di accedere a ruoli sociali significativi per sé e per il contesto, piuttosto che passare la vita dentro una struttura avulsa dalla realtà , per quanto bella e accogliente.   

In terzo luogo mi sembra necessario impegnarsi perché vi siano dei tessuti relazionali attorno alle persone con disabilità che non siano costituiti solo da tecnici, cioè da Operatori che, per lavoro, passano del tempo con le persone con disabilità.

Non ho nulla contro i tecnici, anzi, mi pare evidente che solo una buona competenza tecnica consenta di operare in maniera oculata con le diverse persone e con le loro caratteristiche specifiche.  Ma mi pare altrettanto ovvio che solo delle prossimità relazionali e sociali riescano a rendere mobile, plastico, variegato, il circuito vitale che si può imbastire attorno alla persona con disabilità e alla sua famiglia.  

Mi pare una banalità, una cosa assolutamente basilare quando si pensa alla quotidiana di tutti noi.

Mi chiedo perciò perché questa cosa non debba essere un punto di partenza anche nella vita delle persone con disabilità. Solo che la costruzione e la regolazione di relazioni “non-tecniche” non è tanto immediata e spontanea.

La condizione di solitudine spesso è caratteristica del tempo quotidiano di chi vive con una disabilità psicofisica: serve una cura fine e continuativa affinché queste relazioni possano nascere e mantenersi nel tempo.  

La funzione dei servizi: palestre di vita adulta?     

Vorrei proseguire questa riflessione con un  pensiero relativo al ruolo dei Servizi, a quale è o può essere il loro compito di lavoro in relazione a queste ipotesi.

Sotto questo profilo vorrei far presente che, secondo me, in questa fase e sulla base delle premesse appena esposte, i Servizi possono diventare delle palestre di vita nei confronti delle persone di cui si prendono cura. Cosa significa “palestre di vita”? Significa luoghi all’interno dei quali le persone possano  allenarsi ad abitare il proprio territorio di appartenenza per poterlo vivere il più compiutamente possibile, così come fanno tutte le altre persone che vi trascorrono la propria vita.

Luoghi che cercano di allestire e regolare in maniera pertinente coordinate  diverse (metodologiche, organizzative, relazionali …) che possano aiutare la persona con disabilità ad accedere a livelli più soddisfacenti di riconoscimento identitario e di affermazione esistenziale, e che cercano di aiutare il contesto ad essere meno chiuso e ambivalente; che cercano cioè, in sintesi, di tenere presenti e connessi questi due piani di lavoro: l’adultità delle persone con disabilità e l’adultità del territorio.  

Ma dove si possono trovare le “attrezzature” necessarie a questi “allenamenti”?  Dentro e fuori gli spazi fisici e organizzativi dei servizi.

Il contesto di territorio è una enorme “miniera” di opportunità, di presenze, spazi, stimoli, che possono avere un valore pedagogico per i tragitti identitari delle persone con disabilità.

È un concentrato di possibilità impensabili se si rimane all’interno degli spazi murari del centro diurno o della struttura residenziale.

Certo, ci sono esigenze di adeguatezza, di pertinenza, di appropriatezza, di tenuta nel tempo.

Così come ci sono persone e persone, e alcune hanno bisogno di contesti molto specifici.

Ma mi pare che il chiosco del benzinaio, il negozio dell’estetista, la palestra di arrampicata del CAI, la stazione ferroviaria di un paese, lo spazio di una gelateria, possono avere per molte persone con disabilità valenze educative di un certo peso, almeno quanto quelle del laboratorio di decoupage , di falegnameria o di musicoterapia.

In altri termini, si tratta di darsi da fare per portare la realtà ordinaria all’interno dei servizi dedicati e viceversa.

E di tenere aperti questi scambi, queste interazioni, accettando e gestendo in maniera attiva il portato di fluidità e di creatività che questo scenario pedagogico porta con sé.

In questa   prospettiva i Servizi diventano un po’ più simili a degli aeroporti, a dei rifugi alpini, a delle stazioni ferroviarie, cioè a dei luoghi di arrivo e di partenza.

Luoghi all’interno dei quali si soggiorna il tempo necessario (a volte un tempo molto consistente) per riposare, riflettere, assorbire qualche contraccolpo, studiare un nuovo tragitto, per poter poi rimettersi in cammino, un cammino che sarà differente per le diverse persone e per le diverse fasi della loro vita.

E si allontano dall’immagine di contenitori all’interno dei quali persone con una diagnosi di disabilità e altre senza diagnosi (o con altre diagnosi …) invecchiano insieme.

Questa  prospettiva è già realtà in diversi Servizi che mi è capitato di conoscere di persona, e, immagino, anche in tanti altri che non ho avuto la possibilità di conoscere. 

Nei servizi che sono già orientati in questa maniera mi pare di poter dire che vi sono quattro elementi unificanti,  trasversali alle differenze che pure esistono tra un Servizio e un altro, tra un territorio e un altro.

Il  primo è il superamento del codice pedagogico. In questi Servizi si cerca di andare oltre gli steccati della pedagogia  e si accetta di inoltrarsi su terreni affascinanti ma non sempre agevoli, che hanno a che vedere con letture di carattere fenomenologico, esistenziale, antropologico.

Si cerca di tenere aperte domande piuttosto impegnative, del tipo “ma cosa se ne fa delle cose sta imparando qui?”;  “ma cosa porta a casa grazie al lavoro di tutti noi?”; “ma la sua vita in cosa migliora per il fatto di frequentare questo centro?”  

Sono domande che spostano l’attenzione sul valore esistenziale che assumono gli apprendimenti resi possibili dal lavoro dei Servizi e degli Operatori, più che su ciò che la persona con disabilità apprende frequentando un Servizio, sulla crescita delle sue performances. 

Il secondo è l’alleanza con il contesto circostante. Personalmente ritengo che da soli i Servizi non ce la facciano a reggere domande così impegnative. Se pensano di essere autosufficienti il rischio è la deriva verso il manicomio, verso il lazzaretto. 

È necessario mettere in campo responsabilità e opportunità più articolate, mobili e varie, e interconnesse, che si trovano sia all’interno ma molto anche al di fuori, nel territorio.

L’alleanza con l’esterno non è aggiuntiva e occasionale, ma è decisiva, per la qualità dei percorsi che si possono sviluppare.

È un’alleanza che ha bisogno di essere curata e gestita in maniera oculata: servono luoghi, interlocutori, regole, strumenti, che diano qualità e stabilità a queste interazioni.

Ma quando questa alleanza “funziona”, si vedono risultati davvero soddisfacenti in termini di arricchimento delle potenzialità di lavoro e di apertura di spazi di vita nel territorio.

Il terzo riguarda gli Operatori e il loro ruolo, quello di registi di compatibilità. Cosa vuol dire “registi di compatibilità”? Vuol dire che il compito di lavoro degli Operatori non è tanto quello di “gestire” la persona con disabilità, quanto piuttosto quello di “gestire” le relazioni possibili tra la persona con disabilità e le altre persone.

In questo senso è un operare sulle compatibilità , sul possibile sentire comune tra persone e gruppi differenti. E’ un lavoro di ricerca, di messa a fuoco e di regolazione delle vicinanze e delle sintonie possibili; di gestione delle differenze e dei conflitti, di sostegno all’impegno di tante persone ed alla crescita delle loro potenzialità di comprensione e di azione. È una modalità che richiede una discreta autonomia progettuale e condizioni organizzative e sociali che sostengano gli Operatori nel reggere questo compito.

Infine l’ultimo elemento è la capacità dei Servizi di generare valore sociale. Cosa è il valore sociale? È tutto ciò che contribuisce a rendere migliore la vita del contesto di territorio all’interno del quale i Servizi sono inseriti attraverso azioni concrete portate avanti dai Servizi insieme con altri soggetti : dalla consegna della spesa agli anziani, alla manutenzione delle panchine del parco, alla attivazione di laboratori didattici nella scuola di fianco, alla realizzazione di un murales che diventa arredo urbano, fino alla gestione di una stazione ferroviaria.

Perché è così importante generare valore sociale? Innanzitutto perché istituisce una relazione di tipo mutualistico tra i Servizi ed il loro esterno consentendo ai Servizi stessi di prendere parte, insieme a tante altre realtà, alla costruzione della comunità locale, e quindi di contribuire a rendere più solidale il tessuto sociale, a renderlo più capace di accogliere e fare spazio a tutte le identità, e quindi anche alle persone con disabilità. 

In secondo luogo perché rende disponibili delle aperture e delle possibilità di ingaggio e di coinvolgimento, da parte di realtà e persone del territorio, in relazione alle vicende esistenziali delle persone con disabilità, impensabili dall’interno dei Servizi.

Infine perché contribuisce ad arricchire il ventaglio delle possibilità ideative e progettuali dei diversi Servizi e degli Operatori, portando all’interno dei Servizi stimoli, presenze, logiche di azione , opportunità.

Questi quattro elementi non hanno nulla di rivoluzionario, di eccezionale, ma mi pare possano essere d’aiuto al complicato e affascinante lavoro di accompagnamento di tragitti esistenziali che i Servizi svolgono tutti i giorni.

Per approfondire

- DISABILITA’ E PROGETTO DI VITA. Contrastare la re-istituzionalizzazione dei servizi, Gruppo Solidarietà 2018

- Disabilità complessa e servizi. Una scheda di approfondimento. 

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[1] Questo articolo è una sintesi, rivista e parzialmente modificata, della prefazione al testo “Disabilità: servizi per l’abitare e sostegni per l’inclusione”, AAVV, Rimini, Maggioli, 2016.

[2] Si tratta di un circuito di realtà del centro e nord Italia che da alcuni anni sta sviluppando attività di ricerca, sperimentazione ed elaborazione culturale attorno al binomio inclusione della disabilità-crescita del valore sociale di contesto. Le riflessioni contenute in questo contributo sono debitrici di molte delle sperimentazioni nate all’interno di questo circuito.  Per conoscere meglio questo movimento: Maurizio Colleoni (a cura di), “Immaginabili risorse. Il valore sociale della disabilità”, Angeli, 2016.  

[3] Con il termine “servizi” intendo riferirmi al complesso insieme di strutture (diurne o residenziali), progetti, presidi, che si prendono cura delle persone adulte con disabilità psicofisica e che poi prendono nomi diversi in relazione alla specifica legislazione regionale. 


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Adempimenti legge 4 agosto 2017, n. 124


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