Ha senso un terzo settore senza un’idea di giustizia? Intervista a Luca Fazzi, professore Dipartimento sociologia e ricerca sociale, Università di Trento. Un commento alla legge delega su terzo settore e impresa sociale. Il punto centrale della legge di riforma continua a rimanere l’apertura verso la mercatizzazione e la liberalizzazione del welfare che è implicita in molti passaggi del provvedimento. L’idea che sembra prevalere analizzando le decisioni (e le non decisioni) dell’esecutivo in materia di welfare è però quella secondo cui le logiche di mercato devono compensare e non tanto integrare nel welfare sociale un ritiro considerato ineludibile del finanziamento pubblico. In "Appunti sulle politiche sociali", n. 3/2016 (217) Io penso il terzo settore si trovi realmente in una fase di transizione molto importante che inevitabilmente mette in luce non solo le luci ma anche le ombre e le contraddizioni di ciò che è accaduto negli ultimi trenta anni. Quando sento parlare per esempio di ruolo oppressivo del soggetto pubblico mi chiedo quanta parte di responsabilità dell’aumento di burocrazia, della diffusione di appalti al massimo ribasso o sull’uso strumentale del terzo settore sia imputabile al soggetto pubblico e quanta parte sia da attribuire invece a un modo di pensare e svolgere la propria funzione da parte delle organizzazioni della società civile che probabilmente è stato troppo concentrato a enfatizzare la dimensione del fare e del problem solving quotidiano a discapito di un pensiero politico e strategico di medio lungo periodo. E’ innegabile che una importante del terzo settore nazionale si è storicamente da anni appiattito su una dimensione di erogazione delle prestazioni e ha tralasciato di investire nella costruzione di reti con il territorio e alleanze con la società civile che da sempre rappresentano la chiave di volta per decidere per esempio anche gli esiti dei processi negoziali con il soggetto pubblico. Se io controllo solo la risorsa di una forza lavoro facilmente interscambiabile a causa della semplificazione e standardizzazione dei processi produttivi che tipo di potere politico posso esercitare nei confronti del soggetto pubblico? Certo ci sono variegate forme di scambio individuali, sia lecite che come abbiamo purtroppo visto con Mafia Capitale illecite. Ma per trattare questioni di politica sociale a livello sia nazionale che locale serve un aggregazione e una rappresentanza di interessi che non si può limitare a singole organizzazioni o a singoli comparti produttivi. Quello che serve è la capacità di mobilitazione di interessi diffusi. Per esempio è costruendo relazioni con le famiglie e con gli utenti che le cooperative sociali possono avanzare richieste a livello locale e nazionale sul riconoscimento di nuove forme di servizi e interventi. Se questa alleanza manca perché non è stata curata, la si è reputata poco strategica o semplicemente perché si era affaccendati nella gestione del quotidiano, non ci si deve dopo stupire che quando le famiglie costituiscono un’associazione per gestire il Dopo di noi preferiscono farlo con le proprie forze senza coinvolgere la cooperazione sociale. Il terzo settore purtroppo non è stato capace sempre di costruire piattaforme civili di pressione politica e appiattendosi sulla dimensione gestionale è inevitabilmente caduto dei processo di involuzione della spesa pubblica e di banalizzazione dei servizi di welfare. Recuperare questo livello di pensiero e azione è a mio parere il presupposto centrale per partecipare in modo attivo e progettuale alla costruzione del nuovo welfare, un welfare che per ovvie ragioni deve riuscire a recuperare risorse aggiuntive a quelle pubbliche ma in chiave integrativa e non sostitutiva e tenendo bene in mente che la contabilità e gli elementi finanziari devono continuare a restare strumentali per il perseguimento della mission sociale e no ribaltare il rapporto con essa.