Data di pubblicazione: 05/07/2021
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NOVITA'editoriale. NON COME PRIMA. L'impatto della pandemia nelle Marche

Presentazione

Gran parte di questo nono Quaderno, che documenta quasi un ventennio di lavoro del Gruppo ed è dedicato alle  politiche sociali della regione Marche, ha come riferimento l’impatto della pandemia sugli interventi e sui servizi rivolti alle fasce più deboli della popolazione.  Coprendo un arco temporale di quasi due anni (luglio 2019-giugno 2021), sarà tuttavia facile rilevare come tanti problemi, sorti nella fase acuta della pandemia, fossero già presenti nel nostro sistema sociosanitario regionale, sfibrato da “tagli” (pensiamo solo all’area della prevenzione), razionamenti e dall’assenza di una coerente programmazione.

Il coronavirus è stato il detonatore che ha messo in luce la fragilità del sistema e la sua disfunzionalità. Mentre scriviamo questa presentazione (giugno 2021), siamo alle fine della seconda ondata: la domanda (e la preoccupazione) è se saremo capaci di accogliere gli insegnamenti di questi mesi, oppure, nella “foga della ripresa”, dimenticheremo in fretta quanto accaduto, attribuendolo ad una fatalità non prevedibile. Purtroppo temiamo che questa sia più di una possibilità.

Vale la pena anche ricordare che nelle Marche sono morte, con positività accertata, più di 3.000 persone (1000 alla fine della prima ondata) la cui età media è di 82 anni; chiediamoci inoltre quanti negli ospedali e nelle residenze sono morti avendo accanto personale esperto nelle cure palliative.

Ma cerchiamo di andare con ordine rispetto ai contenuti del Quaderno.

Il primo contributo prende spunto dalla fine del Governo del centrosinistra, a cui da settembre 2020 è subentrata una Giunta di centrodestra.  Si rileggono gli ultimi 25 anni di governo e le scelte compiute, in particolare nell’area sociale e sanitaria: i progressivi processi di accentramento regionale, la creazione dell’Azienda sanitaria regionale unica (ASUR) e la progressiva scomparsa della partecipazione territoriale; la confusione dei ruoli tra Regione e ASUR;  il ruolo sempre più forte del privato speculativo in ambito sanitario e il progressivo allineamento di parte della cooperazione sociale alle medesime logiche finanziarie e gestionali; l’abbandono dei  “luoghi” della valutazione, dell’accompagnamento e della presa in carico. Non solo un abbandono quantitativo (riduzione del personale), ma soprattutto programmatorio e organizzativo. Se questi servizi abdicano al loro ruolo, non possono che diventare i luoghi della certificazione, a cui corrisponde una prestazione, che in sé racchiude (e limita) ogni possibile intervento più complesso, articolato, personalizzato.  

Non era difficile prevedere che la parabola fosse al termine. Un centrosinistra privo di contenuti non poteva che consegnare la Regione al centrodestra.

Un secondo gruppo di contributi prende in esame diversi temi connessi con la pandemia. Una parte, corposa, affronta il tema della cosiddetta “assistenza residenziale” con particolare riferimento alla sfera delle persone anziane. Un primo aspetto da evidenziare è che, nonostante le ripetute richieste, ad oggi la Regione non è stata in grado di fornire dati affidabili rispetto a contagi e decessi all’interno delle strutture. Quando li ha dati, lo ha fatto per lo più in modo goffo ed errato:  è il segnale di quanto contino le persone che abitano questi luoghi.

Persone, i sopravvissuti (non solo alla pandemia, ma anche all’isolamento), recluse per oltre un anno (solo da poco più di un mese infatti, salvo precedenti lodevoli eccezioni, le residenze hanno cominciato timidamente a riaprire le loro porte). L’incapacità di offrire dati adeguati indica di quanto disinteresse sia circondato questo mondo. Un mondo che si è dimostrato sufficientemente  e drammaticamente sconosciuto anche a molti addetti ai lavori: pensiamo solo ai provvedimenti di contrasto al contagio, che si riferivano solo a specifiche tipologie di strutture e non a tutte quelle che potevano essere potenzialmente interessate.  

I dati e le analisi presentate nel testo ribadiscono, ancora una volta, l’urgenza di un cambiamento radicale. Anche se, ad oggi, non è stato rilevato alcun segnale concreto che questa volontà sia presente. Le discussioni sembrano fissarsi (per poi inabissarsi), esclusivamente sul recupero delle perdite economiche (i cosiddetti ristori).

D’altra parte, se ancora a luglio 2020, quindi alla fine della prima ondata, la Regione ha avuto il coraggio di approvare i nuovi requisiti di autorizzazione dei servizi diurni e residenziali prevedendo che  nelle RSA anziani fino al 40% delle camere  potranno essere con  tre o quattro letti, difficile che, in queste condizioni,  si possano nutrire speranze di cambiamento. L’idea che una persona possa vivere per moltissimi anni in camere a tre/quattro letti dovrebbe risultare inaccettabile sempre. Che questo risulti invece possibile anche a pandemia in corso, dimostra non tanto che la devastante esperienza vissuta qualche settimana prima, con qualche centinaio di decessi accertati, non ha insegnato nulla, ma che l’unica cosa che conta è il profitto da una parte e il risparmio, sulla pelle dei deboli, dall’altra.

Se nella sola seconda ondata, i dati regionali riferiti alle residenze per anziani e disabili, ci dicono che in più del 30% si sono sviluppati focolai, come possiamo ancora eludere la domanda sul funzionamento di questi servizi? Dobbiamo attribuire la responsabilità al destino, oppure siamo in presenza di un modello che non è stato in grado di garantire la sicurezza alle persone di cui avrebbe dovuto occuparsi? Malati molto gravi in strutture con standard inadeguati (diciamolo ancora una volta che nella gran parte delle residenze sociosanitarie marchigiane lo standard infermieristico, da convenzione, è di 20 minuti al giorno; quello in più lo paga “l’ospite”); competenze geriatriche, nei fatti, assenti; chi invia (e dovrebbe aver valutato) è consapevole di consegnare persone a servizi strutturalmente incapaci di rispondere in modo adeguato alle loro necessità? Si aggiunga la crescita dei grandi numeri, dimensioni spaziali impersonali, procedure basate sul calcolo rigido dei tempi, superficialità di un modello qualitativo che in larga parte si riduce alla compilazione di moduli (sottraendo tempo alla relazione): ci serve altro per renderci conto che occorre cambiare profondamento il modello di cura?

In questa seconda parte alcuni contributi (lettere e documenti) rilanciano il tema dei sostegni alla domiciliarità, anche con riferimento a quanto previsto dal cosiddetto “decreto Rilancio”: fondi consistenti, volti a potenziare gli interventi di assistenza e cure domiciliari. Un percorso appena iniziato. Vedremo nei prossimi mesi gli esiti e se si riuscirà, effettivamente, a potenziare i sostegni alle persone non autosufficienti che vivono al proprio domicilio. Alle condizioni date, sembra abbastanza improbabile.

Se non hai idee, orizzonti e programmi, l’arrivo dei finanziamenti non garantisce adeguatezza delle risposte. Se hai smantellato i servizi di presa in carico, come puoi pensare di costruire risposte personalizzate? L’unica cosa di cui sarai capace sarà quella di legare l’aumento del finanziamento alle prestazioni. Quello che non serve. Peraltro, come documenta l’ultimo contributo del libro,  gli attuali interventi di sostegno alla domiciliarità, cresciuti quantitativamente negli anni grazie a risorse economiche di provenienza statale, si caratterizzano per la loro disomogeneità  e mancanza di coordinamento, presentandosi soprattutto come trasferimenti diretti alle persone ed alle famiglie. D’altra parte, le risorse aggiuntive regionali, sia sanitarie che sociali,  non sono caratterizzate da impronta progettuale: hanno alimentato i Fondi, allo scopo di mantenere, al crescere dei beneficiari, i medesimi sostegni economici precedentemente erogati.

Non dimentichiamoci cosa è successo nelle diverse fasi della pandemia. Non è la condizione a determinare gli opportuni sostegni, ma il luogo in cui ti trovi. Pensiamo alla “sospensione” dei servizi domiciliari nella fase iniziale della prima ondata; oppure alla non previsione di screening periodico per “operatori e utenti” dei servizi domiciliari (a differenza di quelli diurni e residenziali); o ai tempi di vaccinazione per chi si trovava in residenza rispetto a chi risiedeva al domicilio. Tutti indizi che ci dicono quanta fatica facciano i nostri sistemi dei servizi a sostenere effettivamente ed efficacemente chi vive al domicilio. Non sembra si rifletta a sufficienza su come l’aumento dei trasferimenti monetari diretti rischi di privatizzare il bisogno con la contestuale  deresponsabilizzazione del sistema dei servizi e l’isolamento della persone e delle famiglie.

Non mancano poi alcuni contributi che evidenziano come la mancata programmazione regionale abbia ricadute sui territori: regolamentazioni differenziate in servizi identici; mancata applicazione di norme e la contestuale evidente volontà di non farle applicare;  provvedimenti (vedi il fondo regionale di solidarietà) costruiti in modo talmente inadeguato da non rendere nemmeno possibile l’utilizzo dei fondi in bilancio.

Quello che colpisce ancora una volta è l’incapacità programmatoria, la carenza di obiettivi e, nel caso in cui questi vengano indicati, anche l’inadeguatezza di tipo tecnico. Si aggiunga a ciò una disarmante tiepidezza, quel cercare di accontentare un po’ tutti (a partire, gerarchicamente, dai più forti), dimostrando, così, di non avere mai una posizione netta.

Infine, un’ultima parte è dedicata al percorso che ha portato, come sopra richiamato,  alla definizione dei nuovi requisiti di autorizzazione e accreditamento dei servizi diurni e  residenziali. Nel nostro precedente libro (Le politiche necessarie, 2019) abbiamo corposamente documentato parte di questo percorso; in questo volume, la conclusione. Un percorso emblematico di come, in mancanza di una qualche forma di idea di servizi, ci si concentri esclusivamente nella pratica (non quella alta) della mediazione. Uno degli obiettivi raggiunti dalla Regione e dall’ex presidente Ceriscioli è stato comunque quello di mettere sostanzialmente fine al modello delle piccole comunità, promosso a partire dalla fine degli anni novanta dalle stesse giunte di centrosinistra  nell’area della disabilità e della salute mentale, e di far proprio il modello delle grandi strutture multimodulari, così come sollecita e propone il privato profit.

Come evidenziamo nel contributo, i requisiti di autorizzazione dei servizi diurni e residenziali sono un tassello (importante) del sistema dei servizi, ma non l’unico. Non si tratta solo di analizzarne i contenuti, avendo come riferimento la qualità di vita delle persone che vi risiedono, ma di collegarli ad altri tasselli: personalizzazione dell’intervento, sostegno alla domiciliarità (da non intendersi, attraverso qualche trasferimento, come scarico di responsabilità sulla famiglia), costruzione di un sistema complessivo e coordinato di offerta. Siamo consapevoli che, nella cosiddetta “area sociosanitaria”, sono in gioco esigenze, diritti e interessi economici. La sfida è evitare che siano questi ultimi a definire il quadro delle risposte ai bisogni delle persone, che devono tornare ad essere al centro dello sguardo e dell’azione politica e professionale.

Per quanto ci riguarda, continueremo a lavorare affinché ogni intervento abbia come riferimento il benessere delle persone e venga preservata ed ascoltata la loro voce, rispetto a ciò che le riguarda, così che possano essere, come legittimamente ciascuno di noi chiede, protagoniste dei loro percorsi di vita.                                                                                                                                

Gruppo Solidarietà

Giugno 2021

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