Data di pubblicazione: 16/02/2022
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Un manicomio dismesso. Frammenti di vita, storie e relazioni di cura

Il percorso che ha portato alla stesura di questo libro (Un manicomio dimesso. Frammenti di vita, storie e relazioni di cura, ETS, Pisa, 2020) ci è parso, a tratti, simile a un viaggio nel tempo per penetrare in una sorta di non-mondo. Un viaggio, comunque, per recarci all’incontro con persone vissute un secolo fa e conoscerle, sia pure indirettamente, attraverso parole scritte da loro, a loro o su di loro, per raccontare il sistema “manicomio”, l’ambiente, il contesto. In Appunti sulle politiche sociali, n. 1-2021.

Maria Antonella Galanti[1], professore di Didattica e Pedagogia speciale, Università di Pisa; Mario Paolini, pedagogista e formatore, Treviso.

Tutto ciò che è contenuto in questo volume[2], riflessioni ed emozioni, ha origine nell’archivio e nella biblioteca dell’ex manicomio di Sant’Artemio, a Treviso. La struttura psichiatrica, nata all’inizio del XX secolo, nel 1911, divenne ben presto una sorta di cittadella autosufficiente che continuò a funzionare a pieno regime fino all’epoca della cosiddetta Legge Basaglia. La ricerca, svolta per più di quattro anni (2014-2018), riguarda l’evoluzione delle idee di disabilità psichiatrica e di relazione di cura e le loro trasformazioni nella prima parte del XX secolo ed è basata sullo studio di alcune delle ventottomila cartelle cliniche conservate nell’archivio. Esse sono state selezionate nei limiti di un arco temporale che dall’inizio del Novecento si snoda fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale, passando attraverso la prima, quando Sant’Artemio, diventato Ospedale militare, accolse numerosi soldati con malattie psichiatriche legate all’esperienza del fronte.

Il libro è il risultato di un lavoro di ricerca e di scrittura di due pedagogisti accompagnati da uno psichiatra, Gerardo Favaretto, che ha curato la prefazione ed è stato per anni Direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Azienda Sociosanitaria che ora si chiama Ulss 2 Marca Trevigiana, contribuendo in modo determinante alla riscoperta e conservazione dei materiali dell’ospedale psichiatrico S. Artemio, e poi permettendoci di accedere ai faldoni conservati nell’archivio che è consultabile grazie alla tenacia e al paziente lavoro di persone che ne hanno impedito la dispersione.

Il percorso che ha portato alla stesura di questo libro ci è parso, a tratti, simile a un viaggio nel tempo per penetrare in una sorta di non-mondo. Un viaggio, comunque, per recarci all’incontro con persone vissute un secolo fa e conoscerle, sia pure indirettamente, attraverso parole scritte da loro, a loro o su di loro, per raccontare il sistema “manicomio”, l’ambiente, il contesto. Non volevamo solo conoscere i ricoverati, però, ma anche chi ne condivideva luoghi e tempi: guardati e guardiani; anzi, e meglio ancora, volevamo approfondire le loro relazioni, il riverberarsi reciproco di immagini gli uni degli altri, la quotidianità di una sorta di prigionia condivisa. Ci sembrava, questo, un aspetto importante, occupandoci entrambi della formazione di chi oggi, non più da guardiano, ma correndo ancora il rischio di essere costretto in una sorta di copione simile, affianca persone con problemi psichici gravi e con scarsissima o nulla contrattualità sociale. Volevamo gettare uno sguardo sul passato, ma per conoscere e riflettere pensando all’oggi e a chi si occupa di persone fragili.

Nel libro raccontiamo storie, descriviamo ambienti ma parliamo anche di noi lì, perché la relazione tra persone, ieri come oggi, tra chi cura e chi è destinatario di cura resta una condizione che merita di essere discussa. C’erano persone sorvegliate e persone che sorvegliavano: ma chi erano? Che mestiere era fare l’infermiere o il lavorante in manicomio cent’anni fa? Ci siamo chiesti se e in quale modo, il nostro parlare del passato poteva aiutare chi oggi lavora, o si sta formando per agire nella cura, a consolidare un approccio rispetto ai loro pazienti (utenti, clienti…: il campionario delle fragilità nella relazione di aiuto è denso di etichette) fondato sul rispetto dovuto all’altro in quanto persona, a prescindere da quanto difficile e faticoso sia in certi momenti l’essere in relazione di cura.

Ci auguriamo che questo nostro libro possa offrire qualche spunto di riflessione e a volte sollecitare un sorriso di tenerezza per la comune fragilità che tutti quanti ci caratterizza: sia chi ha bisogno di cure particolari sia chi è preposto a fornirle.

Note di viaggio tratte dal libro

Maria Antonella Galanti. Il mio percorso di ricerca su Sant’Artemio inizia nel 2014, quando per la prima volta sono entrata nel seminterrato dell’attuale clinica psichiatrica di Treviso e ho preso visione dell’immenso materiale sull’ex manicomio che vi è riunito. L’interesse di studio che mi porta a occuparmene riguarda prevalentemente l’evoluzione dell’idea di patologia psichica e di relazione di cura e le loro trasformazioni nella prima metà del XX secolo e l’analisi comprende le cartelle di un arco temporale che si snoda fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, passando attraverso la prima, quando Sant’Artemio, usato come ospedale militare, accoglie numerosi soldati con malattie psichiatriche legate all’esperienza del fronte.

Le cartelle cliniche, divise per anno e per ordine alfabetico e raccolte in vecchi cartolari tenuti insieme da un nastro annodato, sono più di ventottomila e coprono tutto l’arco di vita della struttura. Oltre alle cartelle, allineate da terra fino al soffitto negli scaffali, si possono consultare numerosi documenti che testimoniano lungo gli anni la vita all’interno dell’istituto. Con meticolosa e quasi ossessiva precisione tutto è annotato in quaderni sui quali calligrafie regolari ed eleganti hanno vergato gli elenchi del materiale e dei beni in dotazione, dalle carrozze ai cavalli, ai mobili, alle suppellettili e alle stoviglie, con l’indicazione dell’ubicazione, del responsabile e del valore di ogni oggetto o bene. Possiamo così immaginare l’assetto delle camere singole dei dozzinanti di più elevato rango, che pagavano una retta per il pasto di riguardo, o quello delle corsie comunitarie dei più poveri o ancora quello degli uffici e delle stanze dei medici.

La mia motivazione profonda, come pedagogista, è legata all’idea che la malattia psichica possa essere attenuata o addirittura evitata con gli opportuni accorgimenti educativi di tipo preventivo, ma quella più antica, che la determina, è legata invece al sentimento empatico di comprensione della sofferenza che scaturisce dalla follia e al desiderio di lenirla. In altre parole, potrei dire che è legata all’impossibilità di sentirsi felici nella consapevolezza dell’infelicità indicibile di altri.

Sono convinta, del resto, che chiunque si occupi di questo tipo di realtà, che si tratti di folli o di disabili, di persone con problemi di adattamento o di emarginazione, non possa dedicarsi agli aspetti di approfondimento scientifico se non riesce anche a sviscerare le proprie inevitabili emozioni di fronte alla fragilità umana che poi si lega anche alla propria e al senso dell’impermanenza. Come si potrebbe, altrimenti, provare sentimenti di empatia in chi abita universi così distanti dalle proprie certezze quotidiane, dai propri ritmi di vita, dalle proprie sponde rassicuranti? Credo che chiunque si occupi di questo tipo di persone dovrebbe anche approfittare della loro prossimità per scavare dentro di sé le origini della propria motivazione e anche un po’ per costruirla, soprattutto se oltre a studiare tali universi svolge una professione di cura. I rischi di burn out legati a tale tipo di professione, ai ritmi incalzanti e al venire meno delle risorse, potrebbero forse essere in parte prevenuti ed evitati se accanto alle motivazioni professionali se ne creassero anche di personali, se si riscoprisse la propria parte malata o bambina, in una parola se ci si coinvolgesse anche affettivamente riuscendo a coniugare tutto ciò con la distanza riflessiva e razionale data dalle conoscenze scientifiche.

Ho dedicato un capitolo a storie di donne in manicomio; donne, in età compresa, per lo più, tra i dodici e i sessanta anni, che non si assoggettavano alle attese degli uomini cui dovevano obbedire – mariti, fratelli, padri o figli – destando indignazione sociale e costituendo elemento di pubblico scandalo e per questo, nell’epoca presa in esame in questo testo, finite non di rado in manicomio. È un copione predefinito che non riguarda solo alcune classi sociali, ma è trasversale a tutte. Spesso si evince proprio dalle diagnosi che raggruppano per eccesso o per irrigidimento tratti specifici dello stereotipo di genere al femminile o il ribellarsi a essi.

Molte attribuzioni alludono alla condotta morale non irreprensibile delle donne diagnosticate come folli: eccitata, piacente, ninfomane, civettuola, esibizionista, immorale costituzionale. E molti termini alludono alla disobbedienza o all’incapacità di adempiere quelli che sono ritenuti i doveri di una figlia, di una moglie o di una madre. Ecco che si può essere definita indocile, oziosa, irriverente, stravagante, prepotente, insolente, impertinente, cattiva, minacciosa, madre “contro natura” o ancora, più genericamente, non conforme. Quasi sempre tutte queste caratteristiche sono inglobate nella diagnosi di “psicosi isterica”, non infrequente anche nelle cartelle di Sant’Artemio.

Anche a Sant’Artemio, dunque, sono ricoverate donne diagnosticate come affette da psicosi isterica, descritte con parole non diverse da quelle usate nel passato. Hanno gli occhi vacui o persi in lontananza, dilatati nella messa in scena drammatica di una sintomatologia spesso dolorosa che non trova riscontro oggettivo in alcun male d’organo. Sono etichettate come fatue, ciarliere, mendaci, esagerate, ridondanti, inaffidabili e leggendo le loro cartelle si è come risucchiati in una spirale torbida di inquietudine e di non certezza. Con le consapevolezze dell’oggi, infatti, le loro parole, tratte dalle lettere, ci paiono a volte convincenti e i persecutori, allora non considerati tali, realmente ingiusti verso di loro, con comportamenti capaci, talvolta, di rasentare il sadismo.

Mario Paolini. Certo, quando abbiamo iniziato il percorso che ha portato alla realizzazione di questo libro nessuno di noi avrebbe immaginato quel che sta succedendo in questi mesi con la pandemia. Con Maria Antonella ci conosciamo da tempo e condividiamo molti interessi e modi di pensare; quando le parlai dell’archivio dell’ex OP (all’epoca mi stavo occupando di ricerche sullo sterminio dei disabili e dei malati di mente durante il nazismo e il manicomio di Treviso fu coinvolto in quella che viene chiamata “la coda italiana di T4”) emerse la voglia di intraprendere un viaggio tra quelle carte e di raccontare persone dalle vite fragili, vissute in un luogo celato da un muro, di cui resta traccia dentro le loro cartelle cliniche. “Si varcava un cancello. Parola che è sostantivo, per indicare un manufatto che si apre e si chiude, separare; parola che è verbo, per indicare lo sparire dell’errore e il ripristino del foglio ben scritto su cui continuare a scrivere dopo l’inciampo dell’errore. I manicomi come luoghi di raccolta di parole sbagliate e di persone sbagliate.”

Il mio contributo nel libro è fatto per lo più di frammenti di storie, in molti casi solo poche righe estrapolate da una lettera non spedita, perché non venivano inviate ma lette e conservate come documenti clinici, o arrivata da casa, da una madre o da una moglie in pena. O da un parroco che prega il Direttore di trattenere al manicomio la signora Filomena perché di pubblico scandalo. Ho pensato di dare voce al contenuto delle cartelle, per recuperare le donne e gli uomini le cui vite erano descritte in quei fogli, in quelle parole. Normalmente, nelle cartelle delle persone più povere non si trovano lettere autografe, probabilmente perché erano anche analfabete. Di loro dicono qualcosa le parole dei medici, nei documenti redatti all’atto del ricovero, nelle osservazioni periodiche, nelle diagnosi e nelle prescrizioni cliniche. Altre volte, nelle cartelle di altre persone ci sono carteggi, documenti, e spesso lettere. Lettere non spedite o, se arrivavano da fuori, non recapitate al paziente, perché di tutto decideva il medico in base a propri criteri clinici; lettere che in molti casi fanno pensare a una persona diversa da ciò che emerge dalla diagnosi.

Dare voce alle persone, a chi compie il viaggio della propria vita nel vagone degli ultimi, o a chi per lavoro o per sorte tocca condividere parte del viaggio, è a mio avviso una necessità per chi voglia occuparsi di un’autentica inclusione per tutti, per chi lavora in un servizio con persone fragili, spesso affannandosi per rispettare le consegne in turni sempre più veloci e carichi di cose da fare ma correndo così il rischio di  assegnare alle persone destinatarie della cura il destino di essere soggetti in cura e non di cui avere cura. Per me è un bisogno che diventa sempre più pregnante, anche perché mi accorgo, quando faccio formazione, che le persone hanno voglia di raccontare e di ascoltare storie: un modo per recuperare umanità, umanizzare il proprio lavoro contrastando il rischio di disumanizzazione. Ho provato anche a descrivere l’ambiente, attraverso elenchi di parole oggi desuete ma che possono far immaginare un mondo. Così, nell’anamnesi, si poteva trovare che i disturbi potevano essere conseguenza di “questioni amorose”, o di “alimentazione in gran parte consistente in polenta” piuttosto che di “degenerazione morale congenita”. E tra le cure per le malattie del corpo e dello spirito si poteva trovare scritto “enteroclismi di un litro di acqua salata” oppure, non rare volte, “dieta adeguata”. Un mondo fatto di clinica e di amministrazione, di lenzuola da lavare, legna da tagliare e rendicontare per tipo, se legna buona o di poco conto, se rami grossi o sottili. Ho sfogliato i registri dell’economo, ho guardato il consumo di vino, rosso ovviamente, e in più cartelle il medico alla voce “terapia” prescriveva il mezzo litro a pasto. Mondo complesso, in cui arrivò anche un’ispezione della guardia di finanza, perché due matti avevano impiantato una coltivazione abusiva di tabacco in mezzo al mais in un luogo celato ai margini dell’azienda agricola dell’istituto stesso. Grossa rogna fu quella, con il Direttore che dovette spiegare come fosse stato possibile e che, pur erogando sanzioni a un sacco di gente, ebbe a scrivere, eravamo già sotto il fascismo, che tali fatti dovevano serenamente essere messi in conto in un approccio “open doors” che già da anni si applicava nell’istituto. Piccole storie e incontri importanti, come quello con Giuseppe Montesano, medico di fama ma anche compagno di Maria Montessori. O con artisti, come il pittore Gino Rossi, che morì nel manicomio di Treviso dopo un lungo ricovero. Storie di soldati, perché anche se sono molte le pubblicazioni sui cosiddetti “scemi di guerra”, i soldati che uscirono pazzi stando sotto le bombe, mi sembrava importante, dando voce a pochi di essi, riflettere sul fatto che i generali a cui sono ancora dedicate le piazze e le vie non andavano al manicomio, tuttalpiù in clinica, e poi a casa propria perché li era meglio che non in mezzo a tutta quella gente strana.

Piccole storie senza un protagonista, piccole pietre d’inciampo, per una lettura lenta, attenta, pensosa.


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[1]  Antonella Galanti è purtroppo deceduta pochi mesi dopo la pubblicazione di questo testo che vogliamo dedicare alla sua memoria.  

[2] Un manicomio dimesso. Frammenti di vita, storie e relazioni di cura, ETS, Pisa, 2020.


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