Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva Se è vero che l'identità di una persona si forma sulla base della relazione con gli altri, allora è evidente che sul tema dell'adultità il rapporto tra la persona disabile e le figure educative è un elemento strategico di questa costruzione identitaria. In parole semplici: come faccio a diventare adulto se gli altri continuano a pensarmi e a trattarmi come un bambino? In, Appunti sulle politiche sociali, n. 1/2021 (234). Carlo Lepri, Psicologo e Formatore, docente a contratto, Università di Genova, ha da poco pubblicato, Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva[1]. Stimolati dalla lettura del libro gli abbiamo posto alcune domande (intervista a cura di Fabio Ragaini). Non possiamo iniziare questa intervista senza ricordare Enrico Montobbio, morto lo scorso settembre[2], con cui hai lavorato per oltre trent’anni. Il libro si apre proprio con una lunga lettera a Montobbio. Qual è secondo te l’eredità più importante che ci lascia? Enrico Montobbio è stato un grande innovatore. Nella sua lunga carriera professionale ha contribuito in modo considerevole alla costruzione di una nuova rappresentazione della disabilità, centrata sull'immagine della "persona" e dei suoi diritti. E' soprattutto grazie al suo pensiero e alla sua attività sul campo che è stato possibile, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, avviare quel processo di inclusione nel mondo del lavoro che ha avuto una straordinaria ricaduta anche sugli altri ambiti di vita delle persone disabili e delle loro famiglie. Penso alla scuola, che con l'orizzonte di un futuro lavorativo ha potuto finalizzare meglio i suoi interventi formativi e educativi, ma penso, più in generale ai processi di vita indipendente che molte persone hanno potuto iniziare a sperimentare anche grazie alle autonomie conquistate attraverso il lavoro. Proprio in questo momento storico, nel quale sentiamo che la "ripresa" che si intravvede dopo la pandemia sarà molto incerta e molte sono le preoccupazioni che accompagnano il percorso di riconoscimento dei diritti delle persone disabili, la scomparsa di Enrico Montobbio si fa sentire in modo particolare. Ci manca la sua straordinaria capacità di rispondere alle situazioni critiche cercando sempre soluzioni nuove ai problemi, evitando arretramenti o rinunce e avendo sempre come criterio quello della affermazione di quelli che lui definiva "i bisogni di normalità" delle persone con disabilità. Credo che l'eredità più importante che ci ha lasciato sia proprio questa: guardare alla persona, trasformare i problemi in progetti, immaginare soluzioni per sperimentare, per innovare, anche approfittando delle difficoltà e degli imprevisti. Al termine della lettura del libro ho pensato che questo testo sarebbe importante venisse letto da tutti coloro che “interagiscono” con le persone con disabilità intellettiva. Penso soprattutto alle famiglie e poi alla grandissima responsabilità del sistema dei servizi. Uscire dalla logica dell’eterno bambino, cui dedichi tutta la prima parte del libro, per passare alla prospettiva adulta. Che poi è il tema centrale dei libri che avete scritto con Montobbio. Oggi, siamo poi sfidati dai contenuti della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Cosa vuol dire allora riconoscere la persona nella sua adultità? Oggi, sui temi della disabilità, siamo tutti confrontati con il concetto e con l’immagine della "persona". Nel libro cerco di analizzare la complessità di questa parola presentandola come sintesi di almeno tre diversi livelli di significato: quello etico, per il quale ciascun individuo, in quanto essere umano unico e irripetibile, è persona; quello politico, secondo il quale la persona è "l'individuo più i suoi diritti" (e qui naturalmente la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità diventa centrale); quello psicosociale, secondo il quale la persona e la sua identità sono la sintesi dei ruoli sociali che essa interpreta nella comunità. Nel termine "persona" si integrano questi significati ed è per questo che anteporre la parola "persona" alla parole "disabile" è importante. Non si tratta di una questione di cortesia o di utilizzo di un linguaggio "politicamente corretto". Significa, in realtà, riconoscere che la persona non può essere ridotta alle sue menomazioni. Significa emancipare il concetto di disabilità da due delle rappresentazioni che fino a qualche decennio fa sono state dominanti: la rappresentazione derivante dalla cultura "sanitaria", all'interno della quale la persona viene ridotta alla condizione di “paziente", di "malato da riabilitare" e quella protettivo/ assistenziale che tende ad assimilare la persona alla figura dell'"eterno bambino". Entrambe queste immagini sono svalorizzanti poiché riducono la complessità della "persona" e ne mortificano le potenzialità oltre che i diritti. Dobbiamo poi riconoscere che rispetto alla disabilità intellettiva, la rappresentazione dell'eterno bambino è ancora oggi particolarmente diffusa. Ciò determina che si continui ad immaginare queste persone come bisognose, per tutta la loro vita, dell'attenzione e dei livelli di protezione tipici dell'infanzia, costringendole in una condizione di subalternità e dipendenza; un ostacolo insormontabile alla possibilità di crescita, di autonomia, di autodeterminazione e di costruzione di una identità adulta. Nel libro sostengo l'idea che gran parte dell'identità di ciascuno di noi è determinata dallo sguardo degli altri. Con una specie di slogan si potrebbe dire che "ciascuno di noi è così come è rappresentato dagli altri". Questo significa che se non siamo in grado di vedere le persone disabili come "persone" all'interno del loro ciclo di vita, cioè bambini se bambini, adolescenti se adolescenti, adulti se adulti, anziani se anziani, e non siamo in grado di restituire loro questa immagine in modo che possano usarla come uno specchio, difficilmente consentiremo loro di "diventare grandi". Affermi che solo se si interpretano ruoli sociali autentici è possibile costruire un’identità adulta. Se, dunque, il problema principale è quello delle inadeguate aspettative della società nei confronti delle persone con disabilità intellettiva, come è possibile cambiare questa situazione? Alcuni anni orsono, all'interno di una interessante iniziativa della RAI che si chiamava "Pubblicità Progresso", ricordo di aver visto un breve spot nel quale un giovane adulto con una evidente disabilità intellettiva rimproverava suo nonno dicendogli che non era opportuno mangiasse troppi dolci visto che aveva il diabete. Mi sembrò un modo intelligente per dire che anche le persone con disabilità possono essere individui responsabili, in grado di preoccuparsi degli altri. In altre parole che possono essere adulti non solo anagraficamente. Lo spot ribaltava, in modo sintetico ma efficace, lo stereotipo infantilizzante che prevede che debbono essere sempre gli altri a preoccuparsi delle persone disabili mostrando, invece, che anche chi ha una disabilità può assumersi delle responsabilità verso il mondo. Ho evocato questo episodio perché mi pare sottolinei bene come il tema dell'infantilizzazione sia essenzialmente una questione culturale, legata agli stereotipi che, nel tempo, la società ha prodotto per spiegare e per dare un senso a questa componente della diversità umana che chiamiamo disabilità. Per questo credo che l’aspetto sul quale è prioritario continuare ad intervenire sia quello culturale. Ciò che determina la formazione dell’immagine sociale della “persona” disabile, dei suoi compiti e ruoli nelle diverse età della vita, compresa naturalmente l’età adulta, nasce all’interno della cultura di una comunità. Naturalmente quando parlo di cultura non mi riferisco solo alle cognizioni intellettuali che le persone apprendono attraverso lo studio ma, soprattutto, a quell’insieme di regole, miti, valori, credenze, esperienze, acquisite dall’uomo attraverso i processi di socializzazione. E’ su queste componenti della cultura che occorre continuare a lavorare per affermare l’idea che anche una persona con disabilità intellettiva può diventare adulto. Da questo punto di vista credo si possa convenire sul fatto che i cambiamenti culturali degli ultimi decenni sono stati epocali e confortanti. La Convenzione ONU è, sul piano politico, il segno più evidente di questi cambiamenti. Sappiamo però che le dichiarazioni sui diritti delle persone possono rimanere solo buone intenzioni se non sono nutrite di azioni concrete e coerenti che sostanzino i principi generali. Questo significa che le dichiarazioni universali debbono essere concretamente ancorate ai processi di inclusione sociale in modo che le persone disabili possano accedere realmente ai ruoli presenti nelle varie fasi della vita. Siano essi ruoli "importanti", come lo sono nel mondo degli adulti il lavoro, la vita autonoma, l'abitare, la vita affettiva, il tempo libero, così come quelli meno codificati socialmente ma altrettanto significativi, come prendersi cura della salute del proprio nonno. Nel libro poni una domanda, necessaria e urgente al contempo “Come si può diventare adulti vivendo in luoghi senza tempo, all’interno di relazione che privilegiano la logica della protezione, sicurezza, custodia, rispetto a quella dell’autonomia, dell’autodeterminazione … ? Non è forse il persistere di questi luoghi uno dei segni più evidenti della difficoltà di superare rappresentazioni che contribuiscono a rafforzare la convinzione che il mondo degli adulti debba rimanere tabù per le persone con disabilità?”. Qui poni un problema non solo di natura psicosociale ma di politiche e modelli di servizi da superare. Definirei "centrocentrico" il modello organizzativo con il quale, nel nostro Paese; si tende a rispondere alle esigenze delle persone con disabilità intellettiva adulte. Un modello nel quale sono le persone a doversi adattare alle logiche del "centro" piuttosto che i servizi ad adattarsi e a sostenere il progetto individuale della persona. Si tratta di un modello che trae le sue origini dall'incontro tra le strutture nate dalla cultura Ottocentesca (l'ospedale psichiatrico è l'esempio più tipico), e da quelle espresse dal welfare familistico nato negli anni Cinquanta del secolo scorso. La burocrazia denomina questi "centri" in modi differenti ma quello che li unisce è l'approccio assistenziale/protettivo/riabilitativo che caratterizza il loro funzionamento. Sono luoghi che fanno venire in mente "The Never Land" il territorio immaginario dove Barrie, l'inventore di Peter Pan, situa i ragazzi smarriti che non diventeranno mai grandi. In questi luoghi, l'età delle persone resta sempre indefinita: chi vi abita rimane sempre un "ragazzo" e le pratiche educative sono coerenti con questa specie di tempo sospeso che si arresta alla soglia dell'età adulta e dei suoi ruoli sociali. Vale la pena sottolineare che il permanere di un modello protettivo/assistenziale non dipende dalla volontà maligna di qualcuno ma è, piuttosto, il segnale evidente che l'immagine adulta delle persone con disabilità intellettiva non è ancora un dato acquisito, e non solo a livello sociale, ma neppure da buona parte del sistema dei servizi del nostro welfare. Nel libro c'è un capitolo che ho chiamato "Elogio dell'imprevisto" nel quale sostengo che, sul piano educativo, l'imprevisto può essere una grande occasione per avviare un cambiamento, per vedere le cose da una prospettiva differente. La crisi nella quale siamo stati catapultati in questo ultimo anno è un colossale e, per certi versi drammatico, imprevisto. Servirà per aiutarci a guardare alle persone con disabilità intellettiva con uno sguardo nuovo? Ci aiuterà a ripensare le modalità con le quali stiamo rispondendo ai bisogni delle persone con disabilità? Sarà l'occasione per cominciare mettere al centro non la struttura e le sue logiche ma il progetto personalizzato, co-costruito con le persone e con le loro famiglie, basato sul coinvolgimento della comunità e sui ruoli sociali? Nella seconda parte del libro ti rivolgi a chi ha responsabilità educative. Il ruolo dell’operatore e la sua identità; anche questo è un tema su cui sei tornato altre volte, ma ci sembra questo un punto chiave da approfondire. Come stanno in relazione l’identità della persona adulta con disabilità e l’identità dell’educatore e che ruolo svolge quest’ultimo? Se è vero che l'identità di una persona si forma sulla base della relazione con gli altri, allora è evidente che sul tema dell'adultità il rapporto tra la persona disabile e le figure educative è un elemento strategico di questa costruzione identitaria. In parole semplici: come faccio a diventare adulto se gli altri continuano a pensarmi e a trattarmi come un bambino? Questo chiama in causa la capacità da parte di un educatore di sapersi interrogare sul suo sistema di rappresentazione della persona che è chiamato a sostenere, ad aiutare. Chi è per me questa persona? Riesco a vedere e ad ascoltare le sue parti adulte e a promuoverle oppure mi occupo solo delle sue fragilità, assistendola e proteggendola? A questo proposito, un aspetto che mi sembra importante sottolineare e al quale dedico un intero capitolo del libro, è il fatto che "si diventa grandi cominciando da piccoli". Questo significa che l'idea del "diventare grande" deve comparire il più precocemente possibile nella relazione educativa, sia in quella naturale tra i genitori e il bambino, sia in quella professionale. In fondo tutti siamo diventati adulti anche grazie al fatto che i nostri genitori - e poi via via tutte le figure educative che abbiamo incontrato - hanno pensato che questo sarebbe accaduto e hanno agito coerentemente con questa immagine. Perché questo non deve succedere anche per le persone con disabilità intellettiva? Coniando l’acronimo AIPER (Accoglienza, Immaginario, Progetto, Educazione, Ruolo) evidenzi come la possibilità di costruzione di una identità adulta si giochi all’interno di questi bisogni/desideri/diritti. Declini, in particolare, alcuni di questi aspetti nella parte in cui richiami l’attenzione su alcune prerogative del processo educativo. Il volume è idealmente diviso in due parti. Nella prima ho cercato di concentrarmi sui "perché" e nella seconda sui "come", provando ad avanzare qualche suggerimento per chi ha responsabilità educative all'interno del percorso di crescita di una persona con disabilità intellettiva. Nel capitolo "Cinque suggerimenti per aiutare Peter Pan a diventare grande" ho individuato alcuni aspetti - sintetizzati con l'acronimo AIPER - sui quali credo sia necessario mantenere una costante attenzione da parte di chi è impegnato in compiti di accompagnamento. Le parole che compongono l'acronimo rappresentano dei diritti delle persone e, al tempo stesso, delle esigenze affettive, educative esperienziali, di senso. Infatti, tutti gli essere umani hanno il diritto/bisogno di sentirsi accolti, di sentirsi immaginati adulti, di avere la possibilità di sviluppare un progetto di vita, di essere all'interno di un processo educativo finalizzato al massimo dell'autonomia e, infine, di poter assumere dei ruoli valorizzati all'interno della società. Non sempre questi diritti/bisogni trovano una risposta adeguata. Anzi, per le persone con disabilità intellettiva assistiamo spesso ad una loro negazione e all'affermazione del loro contrario. Ad esempio, alcune prerogative del processo educativo non sempre vengono tenute nella dovuta considerazione. Nomino solo tre aspetti che nel libro vengono approfonditi. Il primo: spesso si dimentica che un processo educativo deve avere un termine temporale in modo da poterne verificare gli obiettivi. Il secondo: la gratificazione dell'educatore dovrebbe essere legata al distanziamento e non al mantenimento della vicinanza. Il terzo aspetto riguarda il riequilibrio della asimmetria della relazione educativa: se questa asimmetria non diminuisce con il procedere della relazione educativa è evidente che non ci sarà una progressiva acquisizione di autonomia da parte di chi si trova nelle condizioni di dipendenza. Ultima domanda riguarda le famiglie, a cui tu dedichi molte riflessioni. Non si può lavorare con la persona con disabilità senza coinvolgere la sua famiglia; consapevoli che anche questa va sostenuta in un processo di accompagnamento. Quando si parla di adultità per le persone con disabilità intellettiva non si può prescindere dal ruolo educativo della famiglia. Il "permesso" a diventare grandi passa inevitabilmente dalla famiglia. Se la famiglia non riesce a vedere grande il proprio figlio questo permesso difficilmente verrà accordato. Gli adolescenti "normotipici" di solito, cominciano a distanziare i propri genitori e iniziano a sperimentare la propria autonomia per avviarsi verso il non facile mondo degli adulti. Ma nel caso delle persone con disabilità intellettiva questi processi di distanziamento adolescenziale delle figure genitoriali sono più difficili da attivare. Pesano, spesso, la storia educativa, la debolezza identitaria, i sostegni che mancano. Per questo le famiglie che si confrontano con un figlio con disabilità intellettiva che sta diventando grande sono chiamate ad un compito particolarmente arduo e, per certi versi, inusuale: non solo quello di accettare ma anche di favorire, laddove non sono presenti, i processi di distanziamento nei confronti del proprio figlio. Questo compito è davvero difficile proprio in ragione del fatto che, sul piano sociale , un figlio disabile viene immaginato come bisognoso di protezione e di attenzione continua da parte della sua famiglia. Entrare nella logica del distanziamento significa pertanto confrontarsi con questo condizionamento sociale e con i sensi di colpa che esso può determinare. E' come se le famiglie che si confrontano con un figlio disabile non solo debbono essere "sufficientemente buone", secondo la definizione di Winnicott, ma addirittura "perfette", sempre disponibili, sempre presenti. Sappiamo, invece, che una delle condizioni del percorso verso una possibile adultità è proprio quella di potersi confrontare con le imperfezioni dei propri genitori. La complessità di questi temi sul piano psicosociale rende ancora più evidente la necessità di disporre di servizi che siano in grado di accogliere le famiglie e di sostenerle, il più precocemente possibile, nel loro ruolo educativo. In fondo, affinché la famiglia sia in grado di accogliere l'idea che il proprio figlio possa diventare grande occorre che essa sia, a sua volta, accolta e sostenuta lungo questo percorso impegnativo. Ma questo può avvenire solo in un clima emotivo di alleanza con la famiglia, un clima dal quale sia bandita la dimensione del giudizio e della colpa. [1] Erickson 2020, pag. 174, euro 20. [2] Segnaliamo il commosso ricordo di Mario Paolini, Ricordo di Enrico Montobbio, Appunti sulle politiche sociali, n. 3-4/2020. Dello stesso autore: Persone con disabilità e lavoro in Italia. Il lungo percorso. Puoi sostenere la rivista con l'abbonamento. .......... PUOI SOSTENERE IL NOSTRO LAVORO CON IL 5 x 1000. La gran parte del lavoro per realizzare questo sito è fatto da volontari, ma non tutto. Se lo apprezzi e ti è anche utile PUOI SOSTENERLO IN MOLTO MODI.