Da “La non violenza è in cammino”
Numero 988 dell'11 luglio 2005
Annamaria Rivera: Campi di concentramento e neolingua
Da, “Il manifesto” del 9 luglio 2005.
(torna all'indice informazioni)
Se si volesse tracciare una storia dei “Centri di permanenza temporanea”
(in sigla: Cpt), sarebbe opportuno ripercorrerla fin dagli esordi, per
comprendere come e perchè sia nato questo mostro giuridico, inedito nella
storia della repubblica italiana fino al 1998, quando venne istituito
dalla legge detta Turco-Napolitano.
In questa sede ci limitiamo a ricostruire un frammento della sua storia
semantica, per gli anni che vanno dal 1998 al 2000. Decostruire le parole
per svelarne gli inganni è un utile esercizio critico. La manipolazione
e il controllo sul linguaggio sono infatti perno centrale dei dispositivi
che, dopo aver creato categorie di indesiderabili, rendono socialmente
accettabile la loro segregazione in spazi speciali, sottratti al diritto
ordinario: fra questi, i Cpt, sigla italiana di quelle strutture quasi-concentrazionarie,
per dirla con Etienne Balibar che, previste dagli accordi di Schengen,
sono divenute un sistema che con nomi diversi ricopre l'intero territorio
europeo. I Centri di permanenza temporanea e assistenza sono figli di
un imbarazzo linguistico che lascia trapelare cattiva coscienza, o almeno
disagio politico. Perchè mai, infatti, invece di definirli per ciò che
sono, cioè centri di detenzione o campi di reclusione, si è ricorso a
un goffo stratagemma semantico?
Perchè chi li ha concepiti sa bene che in uno stato di diritto è possibile
comminare una pena detentiva solo a chi sia stato definitivamente condannato
per un certo reato penale; e sa bene che, comunque, ogni forma di limitazione
della libertà personale deve essere conseguente a un atto giudiziario.
E invece, per una speciale categoria di individui, e in base al loro semplice
status di “irregolari”, “clandestini”, richiedenti asilo, si deroga dallo
stato di diritto e dalla Costituzione privandoli della libertà personale
per un fine diverso dalla repressione di reati: l'irregolarità o la “clandestinità”
sono semplici infrazioni amministrative.
La storia dei Cpt è dunque anche storia di un rapporto di potere linguistico:
un atto di arroganza semantica, una prova di forza che violenta il comune
senso del diritto e della lingua mascherandosi dietro la subdola strategia
dell'eufemismo, “una figura retorica che consiste nel sostituire parole
sgradevoli o crude con altre di significato attenuato”, come dicono i
dizionari.
Ai tempi del Terzo Reich Bisogna guardarsi dagli eufemismi. L'eufemismo
menzognero era alla base della neolingua in uso nel Terzo Reich: l'antisemitismo
era detto “dottrina razziale”, le camere a gas “installazioni speciali”,
il genocidio “soluzione finale”. Da un eufemismo, i “campi di custodia
protettiva”, si svilupparono i campi di concentramento e quelli di sterminio.
Gli internati vi erano accolti da uno slogan che suonava come un eufemismo
derisorio: “Il lavoro rende liberi”. Nel caso dei Cpt, l'eufemismo è rafforzato
dall'ossimoro, un'altra figura retorica che consiste nell'accoppiare logicamente
due parole dal significato opposto o contraddittorio: permanenza temporanea.
“Permanenza” è la qualità di ciò che permane, ma significa anche soggiorno
in un certo luogo: “buona permanenza” si augura a chi è giunto in un località
di vacanza. Ma anche chi ha concepito la legge detta Turco-Napolitano
fu colto dal sospetto che i Cpt non potessero essere luoghi di vacanza:
non proprio carceri, certo, ma neppure alberghi, come ebbe a dire più
tardi un ministro di centrosinistra. L'eufemismo ossimorico che li designa,
a onor del vero, non è elegantissimo. Se a un ospite auguraste “buona
permanenza temporanea”, se ne avrebbe a male pensando che volete liberarvene
quanto prima. Ma dai Cpt non si esce tanto presto (si era costretti a
permanere fino a un mese, oggi fino a due mesi, grazie alle migliorie
della Bossi-Fini) e neppure quando si vuole: se chi è stato condotto là
si accorge che quella permanenza non fa per lui/lei o che non ha bisogno
di assistenza, non è che può dire “me ne vado”. A convincerlo a restare
ci sono poliziotti, sbarre, cancelli, gabbie, manganellate. E se qualcuno
si ostina a prendere alla lettera l'eufemismo e riesce ad andarsene, non
lo trattano come un ospite scortese che rifiuta l'ospitalità ma come un
mafioso evaso da un carcere di massima sicurezza. Una volta riacciuffato,
il trattamento non è quello che si riserva agli ospiti, per quanto villani:
un certo direttore di uno di questi non-luoghi deve aver esagerato in
sgarberia se i giudici gli hanno fatto provare il carcere, quello propriamente
detto.
Dai Cpt non si va e viene a piacimento. Può accadere che le porte siano
chiuse dall'esterno anche quando uno è agonizzante e i suoi compagni di
permanenza disperatamente gridano aiuto. Così, forse imbottito di psicofarmaci,
la notte di Natale del 1999 morì nel centro di Ponte Galeria Mohammed
Ben Said. La mandibola fratturata, forse a causa del trattamento ricevuto
in carcere, per giorni e giorni aveva reclamato cure mediche mai ricevute;
per giorni e giorni aveva gridato, non creduto da alcuno, d'essere sposato
con una cittadina italiana e che dunque non può essere sottoposta ad espulsione.
Dopo la sua morte, qualcuno lo trovò, quel certificato di matrimonio.
Ben Said non fu il primo a morire di Cpt. Il primo agosto del 1998 Abedeleh
Saber era morto nel carcere di Agrigento, dove era stato tradotto dopo
una rivolta nel centro di Lampedusa: anch'egli, si disse, vi aveva subito
una massiccia somministrazione di tranquillanti. Può accadere che le porte
siano sbarrate dall'esterno anche quando scoppia un incendio e gli “ospiti”
rischiano di bruciare vivi: così morirono tre ragazzi maghrebini nel Cpt
“Serraino Vulpitta”, un ex-ospizio di Palermo, la notte fra il 28 e il
29 dicembre di quel tragico 1999. Altri due sarebbero morti qualche giorno
dopo in ospedale; l'ultimo dei sei avrebbe smesso di respirare dopo due
mesi e mezzo di agonia.
Ospiti, o trattenuti
Ma ritorniamo all'eufemismo. Dal caos di una specie di archivio salta
fuori un depliant colorato, ben fatto, che reclamizza, per conto del governo
dell'epoca, una merce speciale: la legge 40 del 1998, appunto. Vi si illustra
anche l'articolo che istituisce i Cpt. Come vengono definiti i reclusi?
Ospiti, naturalmente. “Ospiti” - o “trattenuti” - essi sono anche per
un altro documento che ci è restituito da quel caos cartaceo. Il periodo
è lo stesso: 13 ottobre 1998; il linguaggio, più burocratico, non rinuncia
all'eufemismo, che si tinge di qualche venatura tetra. È una circolare
del ministero dell'Interno, firmata da un certo sottosegretario e indirizzata,
fra gli altri, ai prefetti di cinque città. Vi sono allegate le linee-guida
delle “caratteristiche tecnico-strutturali” dei Cpt, elaborate da un apposito
gruppo di lavoro: “dovrebbero essere previsti ampi spazi aperti destinati
all'attività ricreativa degli ospiti nonché per consentire... un agevole
intervento delle Forze di Polizia...”. L'ombra minacciosa si accentua,
allorché si suggerisce la costruzione di alloggi “per ospitare eventuali
nuclei familiari con minori”. 8 morti in 16 mesi, a legge da poco varata
(era stata approvata nel febbraio del 1998) avrebbero dovuto suggerire
che l'eufemismo era davvero fuori luogo. E invece no.
Confortati dal gusto governativo per le figure retoriche, da allora in
poi i mass media - e perfino giornali, politici e chierici di sinistra
– si diedero a definire i Cpt “centri di accoglienza”. Un martellamento
che fece il suo bell'effetto sull'opinione pubblica, la quale si persuase
che gli “extracomunitari” più sono trattati bene e più si ribellano contro
i loro benefattori.
Il 15 gennaio del 2000, dopo quel tragico dicembre di “ospiti” morti prematuramente,
un corteo antirazzista cercò di accompagnare una delegazione nel Cpt di
Ponte Galeria. Fu disperso dalle forze dell'ordine ma alcuni manifestanti
non rinunciarono a spiegare agli abitanti del borgo le ragioni della loro
protesta. Scoprirono che essi erano persuasi che quello che sorgeva là,
a pochi passi dalle loro case, fosse un centro di accoglienza e che i
manifestanti fossero in sostanza dei razzisti che contestavano il trattamento
generoso riservato agli “extracomunitari”. La forza persuasiva dei mass
media aveva loro impedito di scorgere le enormi gabbie che lo circondano.
Viene in mente Dachau, ridente e tranquilla cittadina vicino Monaco, i
cui abitanti per lungo tempo convissero con un lager senza mai vederlo.
La fermezza di centrosinistra
Restiamo nel 2000, tempo di elezioni regionali. In Emilia-Romagna
i partiti del centrosinistra firmano un accordo programmatico in cui,
fra l'altro, dopo aver proclamato l'intento di contrastare virilmente
“con mezzi idonei e con grande fermezza ogni forma di immigrazione clandestina
finalizzata alla criminalità e strumento di illegalità”, chiedono al governo
che la Regione possa svolgere “un ruolo chiave... nella programmazione
dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati espulsi”. Anche
chi avrebbe dovuto essere più cauto difese quell'accordo come il migliore
possibile; chi protestò fu trattato come si tratta chi disturba il manovratore.
I disturbatori dal canto loro continuarono caparbiamente a condurre campagne
e lotte anche dure per la chiusura definitiva dei Cpt, che chiamarono
lager: un termine forse troppo forte, ma solo per chi non conosce il tedesco
e la storia. Oggi, finalmente, un varco importante s'è aperto nel muro
del silenzio e delle complicità. Non è casuale che ciò sia accaduto in
Puglia, terra di frontiera, di sbarchi, di lager dalla conclamata crudeltà,
di tragedie come quella della Kater I Rades: 108 albanesi annegati il
28 marzo 1997, in seguito allo speronamento da parte di una nave della
Marina militare durante un pattugliamento in acque internazionali, deciso
dal governo di centrosinistra dell'epoca. Ci voleva uno come Nichi Vendola,
raffinato ricamatore di parole, per denunciare con tanta forza e clamore
l'imbroglio semantico dei Cpt e il loro insostenibile scandalo. Se è vero,
come pensavano Bourdieu e Sayad, che i cambiamenti semantici sono cambiamenti
nella struttura dei rapporti di forza nella società, allora forse è un
buon segno che a dire “lager” invece che “centri di accoglienza” siano
ora anche dei compassati presidenti di regione.
|