Il sole24ore - 21 gennaio 2007
Io, Welby e la morte
Carlo Maria Martini
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Con la festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di
episcopato e sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno
di età. Pur essendo vissuto in un periodo storico tanto travagliato
(si pensi alla Seconda guerra mondiale, al Concilio e postconcilio, al
terrorismo eccetera), non posso non guardare con gratitudine a tutti questi
anni e a quanti mi hanno aiutato a viverli con sufficiente serenità
e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i medici e gli infermieri
di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per
reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di
questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la competenza
e lo spirito di sacrificio. Mi rendo conto però,con qualche vergogna
e imbarazzo, che non a tutti è stata concessa la stessa prontezza
e completezza nelle cure. Mentre si parla giustamente di evitare ogni
forma di "accanimento terapeutico" ,mi pare che in Italia siamo
ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di "negligenza
terapeutica " e di "troppo lunga attesa terapeutica". Si
tratta in particolare di quei casi in cui le persone devono attendere
troppo a lungo prima di avere un esame che pure sarebbe necessario o abbastanza
urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono accolte negli
ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. È
un aspetto specifico di quella che viene talvolta definita come "malasanità"
e che segnala una discriminazione nell'accesso ai servizi sanitari che
per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso modo.
Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il
loro dovere con grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente
di problemi di struttura e di sistemi organizzativi. Sarebbe quindi importante
trovare assetti anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del
mercato, che spingono la sanità a privilegiare gli interventi medici
più remunerativi e non quelli più necessari per i pazienti,
che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l'esecuzione
degli esami necessari.
Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca
che hanno attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà
che accompagna le decisioni da prendere al termine di una malattia grave.
Il recente caso di P.G. Welby, che con lucidità ha chiesto la sospensione
delle terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni
da una tracheotomia e da un ventilatore automatico, senza alcuna possibilità
di miglioramento, ha avuto una particolare risonanza. Questo in particolare
per l'evidente intenzione di alcune parti politiche di esercitare una
pressione in vista di una legge a favore dell'eutanasia. Ma situazioni
simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà
darvi più attenta considerazione anche pastorale.
La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre
la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz'altro il progresso
medico è assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie
che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono
un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai
non giovano più alla persona.
È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra
eutanasia e astensione dall'accanimento terapeutico, due termini spesso
confusi. La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita,
causando positivamente la morte; la seconda consiste nella «rinuncia
... all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole
speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 471). Evitando l'accanimento terapeutico «non si vuole ... procurare
la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della
Chiesa Cattolica, n.2.278)assumendo così i limiti propri della
condizione umana mortale.
Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è
appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi
matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento
discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le
intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere
trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete —
anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite —
di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale
gravità, sono effettivamente proporzionate.
Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione
di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una
concezione del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla
come assoluta. Anzi è responsabilità di tutti accompagnare
chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse
sarebbe più corretto parlare non di «sospensione dei trattamenti»
(e ancor meno di «staccare la spina»), ma di limitazione dei
trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza
deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona,
assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche.
Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi
una grande importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una
normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità
del rifiuto (informato) delle cure — in quanto ritenute sproporzionate
dal paziente — , dall'altra protegga il medico da eventuali accuse
(come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo
implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia. Un'impresa difficile,
ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese
in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno
capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un
alto impatto emotivo anche perché riguardano la grande questione
di come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell'ombra
il primo problema che ho voluto sottolineare, anche in riferimento alla
mia personale esperienza. È soltanto guardando più in alto
e più oltre che è possibile valutare l'insieme della nostra
esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni,
bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa
della vita eterna.
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